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Era mezzogiorno e, dal momento che era ottobre, il sole non era molto alto nel cielo. Ma almeno le api, così noiose d’estate, erano sparite. In alto, sui fianchi delle montagne, c’erano soprattutto conifere, naturalmente, ma laggiù abbondavano gli alberi decidui. Le foglie di molti avevano già cambiato colore.

«Andiamo» disse Jake.

Moot esitò. «Non c’è rischio di radiazioni, vero?»

«Non finché l’acceleratore è spento. Siamo assolutamente al sicuro.»

Mentre si dirigevano verso la baracca di cemento un riccio sgambettò veloce accanto a loro, nascondendosi subito sotto i germogli di rapa alti una ventina di centimetri. Jake si fermò davanti alla porta. Era una vecchia porta su cardini, con una serratura di sicurezza, ma qualcuno l’aveva forzata: un piede di porco giaceva in mezzo all’erba accanto alla baracca.

Moot osservo la porta. «Non c’è ruggine» disse, indicando il metallo scoperto nel punto in cui la serratura era stata rotta. «È stato fatto da poco.» Con la punta delle scarpe eleganti sollevò appena il piede di porco. «L’erba sotto è ancora verde; la porta dev’essere stata forzata ieri, o oggi stesso.» Guardò Jake. «Tenete qualcosa di prezioso là dentro?»

«Di prezioso, sì» rispose Jake. «Ma quanto a venderlo? Non se ne parla, a meno che non si conosca un mercato nero per apparecchi obsoleti di fisica dell’alta energia.»

«Lei ha detto che il collisore non è stato usato di recente?»

«Non da qualche anno.»

«Potrebbero essere dei vagabondi» disse Moot. «Là sotto può viverci qualcuno?»

«Io… io penso di sì. Sarebbe buio e freddo, ma a prova d’acqua.»

Moot aveva una sacca fissata su un fianco; la aprì e ne estrasse un piccolo congegno elettronico che fece scorrere sopra il piede di porco. «Ci sono un sacco di impronte digitali» disse. Jake guardò anche lui: si potevano vedere le impronte fluorescenti sullo schermo del congegno. Moot premette qualche pulsante. Dopo circa trenta secondi del testo cominciò a scorrere sullo schermo. «Nessuna corrispondenza in archivio. Chiunque ha lasciato queste impronte non è mai stato arrestato in Svizzera o nell’Unione europea.» Una pausa. «Quanto è lontano Procopides?»

Jake indicò col dito. «Più o meno cinque chilometri in quella direzione. Ma qui dovrebbero esserci un paio di carrelli a cuscino d’aria parcheggiati; ne prenderemo uno.»

«Ha un cellulare? Possiamo chiamarlo?»

«È sepolto sotto cento metri di terreno» rispose Jake. «I cellulari non funzionerebbero.»

Si affrettarono dentro la baracca.

Theo aveva percorso un paio di centinaia di metri lungo il tunnel senza trovare niente che potesse aiutarlo ad aprire lo sportello di accesso all’unità criostatica. Si guardò indietro; l’unità stessa era scomparsa alla vista oltre la curva appena accennata della galleria. Stava per rinunciare e tornare alla monorotaia quando il suo sguardo fu colpito da qualcosa poco più avanti. C’era qualcun altro che stava lavorando accanto a uno dei magneti esapolari. Quell’individuo non indossava il casco di sicurezza… una violazione dei regolamenti bella e buona. Theo pensò di chiamarlo, ma l’acustica nel tunnel era così cattiva che lui aveva imparato da tempo che era inutile rivolgersi a voce a qualcuno oltre una certa distanza. Be’, a Theo non importava chi fosse, gli bastava che avesse con sé una cassetta degli attrezzi più fornita della sua.

Theo impiegò un altro minuto prima di avvicinarsi all’uomo. Lavorava accanto a una delle pompe dell’aria; il frastuono della pompa doveva avere coperto il rumore dei passi di Theo che si avvicinava. Fermo sul pavimento della galleria c’era un carrello a cuscino d’aria, un disco di circa un metro e mezzo di diametro con due sedili singoli sotto un tettuccio. I carrelli a cuscino d’aria erano stati progettati per l’uso nei campi da golf; sui green erano molto più semplici ed efficaci degli antiquati veicoli motorizzati.

Ai vecchi tempi c’erano migliaia di dipendenti del CERN che Theo non aveva mai visto, ma in quel momento, con il personale ridotto a poche centinaia di persone, Theo si stupì di vedere qualcuno che non conosceva.

«Ehilà» disse Theo.

L’uomo — un bianco magro sulla cinquantina, con i capelli grigi e gli occhi anch’essi grigi — si girò di colpo, evidentemente colto di sorpresa. Aveva con sé una cassetta degli attrezzi, ma…

Aveva aperto una grossa piastra di accesso sul lato di una pompa dell’aria e aveva appena finito di inserirvi un congegno…

Un congegno che assomigliava a una valigetta di alluminio con una fila di cifre digitali luminescenti su un fianco.

Cifre luminescenti che avevano iniziato il conto alla rovescia.

30

C’era una serie di armadietti allineata lungo una parete della baracca. Jake prese un casco giallo e indicò a Moot di fare la stessa cosa. All’interno c’era un ascensore, ma anche una rampa di scale che scendeva verso il basso. Jake premette il pulsante di chiamata per l’ascensore; i due attesero per un tempo interminabile che comparisse la cabina.

«Chiunque sia stato a entrare deve essere ancora qui dentro» disse Jake. «Altrimenti l’ascensore sarebbe stato fermo a questo piano.»

«Non potrebbe avere preso le scale?» chiese Moot.

«Potrebbe, ma sono un centinaio di metri… l’equivalente di trenta piani in un palazzo per uffici. Anche scenderle è faticoso.»

L’ascensore giunse e loro entrarono. Jake premette il pulsante per avviare la discesa. La discesa fu lenta in modo frustrante; ci volle un minuto buono per giungere a livello della galleria. Jake e Moot uscirono dalla cabina. C’era un carrello a cuscino d’aria parcheggiato lì, e Jake vi si diresse. «Non mi ha detto che dovevano essercene due?» gli domandò Moot.

«A quanto mi risultava, sì» rispose Jake.

Jake si sistemò sul sedile del guidatore, e Moot su quello del passeggero. Accese i fari e attivò le ventole per l’effetto terreno. Il carrello si sollevò e i due imboccarono il tunnel in senso antiorario, procedendo alla massima velocità consentita dal piccolo veicolo.

Lungo il percorso il tunnel si raddrizzava per un certo tratto; lo faceva in prossimità di ognuno dei quattro rilevaton, per evitare le radiazioni del sincrotrone. Nel mezzo della sezione rettilinea i due uomini videro la gigantesca sala vuota, alta venti metri, in cui veniva solitamente alloggiato il rilevatore detto Solenoide a muoni compatti (CMS), con il suo magnete da 14.000 tonnellate. Quando era stato costruito, il CMS era costato oltre cento milioni di dollari americani. Dopo lo sviluppo del Collisore tachioni-tardioni il CERN aveva messo in vendita il CMS così come ALICE, DI solito alloggiato in una sala analoga in un altro punto della galleria circolare. Il governo giapponese li aveva acquistati entrambi per utilizzarli nel loro acceleratore KEK a Tsukaba. Michiko Komura aveva supervisionato di persona lo smantellamento delle enormi macchine a Ginevra e il loro riassemblaggio in terra nipponica. Il rumore dei motori del carrello a cuscino d’aria echeggiò nella grande sala, abbastanza grande da ospitare un palazzina condominiale.

«Quanto manca ancora?» chiese Moot.

«Non molto» disse Jake.

Continuarono ad avanzare.

Theo guardò l’uomo, ancora accucciato nella galleria di fronte alla pompa dell’aria. «Mein Gott» esclamò quest’ultimo a bassa voce.

«Ehi» disse Theo. «Chi è lei?»

«Salve, dottor Procopides,» disse l’uomo.

Theo si rilassò. Se quel tipo sapeva chi era, non poteva trattarsi di un intruso. E poi aveva un aspetto vagamente familiare.