Lloyd era in piedi alle sue spalle mentre lei continuava a provare, ma alla fine Michiko alzò lo sguardo su di lui, uno sguardo disperato. «Non riesco a prendere la linea» disse. «Devo andare là.»
«Verrò con te» disse Lloyd senza pensarci. Uscirono dall’edificio, nell’aria calda di aprile, con il sole rosso che già baciava l’orizzonte e le montagne che si profilavano in lontananza.
Anche la macchina di Michiko — una Toyota — era parcheggiata lì, ma presero la Fiat in leasing di Lloyd, che si mise alla guida. Attraversarono tutto il campus del CERN, passando accanto ai torreggianti serbatoi cilindrici di elio liquido, e imboccarono la strada, che lì portò direttamente a Meyrin, la città appena a est del CERN. Anche se videro alcune auto ai margini della strada, le cose non sembravano peggiori di quanto apparissero dopo una delle rare tempeste invernali, a parte, naturalmente, che non c’era neve sul terreno.
Attraversarono rapidamente la città. A breve distanza intravidero l’aeroporto di Ginevra, Cointrin. Colonne di fumo nero si levavano verso il cielo; un grosso jet della Swissair era precipitato sulla pista di atterraggio. «Mio Dio!» esclamò Michiko, portandosi una mano chiusa a pugno verso la bocca. «Mio Dio!»
Proseguirono fino a raggiungere la città di Ginevra, situata sulla punta occidentale del lago Lemano. Ginevra era una ricca metropoli di 200.000 abitanti, conosciuta per i ristoranti extra lusso e i negozi esclusivi.
Insegne che normalmente sarebbero state accese erano spente, e una gran quantità di auto — molte delle quali Mercedes, o altre marche costose — erano uscite di strada e si erano schiantate contro i palazzi. Le vetrine in cristallo di molti negozi erano infrante, ma non sembrava che ci fosse alcun saccheggio in atto. Anche i turisti erano in apparenza troppo storditi da ciò che era successo per approfittare della situazione.
Scorsero un’ambulanza che si stava prendendo cura di un vecchio sul lato della strada; sentirono anche le sirene dei pompieri o di altri mezzi di soccorso. E a un certo punto videro un elicottero infilato nella parete a vetrate di un piccolo palazzo per uffici.
Passarono il Pont de l’Ile, attraversando il Reno con i gabbiani che volteggiavano sopra di loro, lasciarono la rive droite con i suoi alberghi patrizi ed entrarono nella storica rive gauche. La strada intorno alla vieille ville — la città vecchia — era bloccata da un incidente che aveva coinvolto quattro macchine, e così dovettero cercare di trovare una via d’uscita lungo le stradine tortuose e a senso unico del centro. Giunsero a rue de la Cité, e di lì svoltarono per la Grand rue. Ma era bloccata anche quella da un autobus della Transports Publics Genevois che aveva sbandato e adesso ostruiva entrambe le carreggiate. Tentarono un itinerario alternativo, con Michiko sempre più nervosa a ogni minuto che passava, ma anche questa strada era impercorribile per via delle automobili danneggiate.
«Quanto è lontana la scuola?» chiese Lloyd.
«Meno di un chilometro» rispose Michiko.
«Andiamo a piedi.» Tornò indietro fino alla Grand rue e lasciò la macchina sul lato della strada. Non era una zona di parcheggio autorizzato, ma Lloyd pensò che difficilmente qualcuno ci avrebbe fatto caso, in un momento come quello. Scesero dalla Fiat e cominciarono a inerpicarsi lungo le strade ripide e acciottolate. Michiko si fermò dopo pochi passi per sfilarsi le scarpe con i tacchi alti, in modo da poter correre più veloce. Continuarono a salire, ma quando giunsero a un marciapiede ricoperto di frammenti di vetro dovettero fermarsi di nuovo, perché lei potesse rimettersi le scarpe.
Salirono di corsa rue Jean-Calvin, oltrepassando il museo Barbier-Mueller, svoltarono per rue du Puits St. Pierre e sfrecciarono davanti alla maison Tavel, che con i suoi sette secoli di vita era la più antica casa privata di Ginevra.
Rallentarono appena l’andatura quando giunsero di fronte all’austero Tempie de l’Auditoire, dove Calvino e Knox avevano tenuto i loro sermoni pubblici.
Con il cuore in subbuglio, il respiro ansimante, ripresero a correre. Sulla destra si stagliava la Cattedrale di StPierre e la casa d’aste di Christie’s. Michiko e Lloyd attraversarono in tutta fretta la place du Bourg-de-Four, con la sua sfilata di cafés e patisseries all’aperto intorno alla fontana centrale. Molti turisti e molti cittadini ginevrini erano ancora accasciati sulla pavimentazione in pietra, intenti a curare le loro escoriazioni e ammaccature o assistiti da altri passanti.
Giunsero finalmente in prossimità della scuola, in rue de Chaudronniers. La scuola Ducommun era un complesso adibito da lungo tempo al servizio di assistenza per i figli degli stranieri che lavoravano a Ginevra o nei suoi paraggi. Gli edifici centrali avevano più di duecento anni, ma parecchie costruzioni erano state aggiunte negli ultimi decenni. Anche se le lezioni terminavano alle quattro del pomeriggio, venivano offerte attività di doposcuola fino alle sei, in modo che i genitori con un’attività professionale a tempo pieno potessero lasciarvi i figli per tutto il giorno; anche se ormai erano quasi le sette, c’erano ancora numerosi gruppi di ragazzi.
Michiko non era affatto l’unico genitore a essersi precipitato lì. La zona intorno alla scuola era tutta un viavai di diplomatici, ricchi uomini d’affari e altri i cui figli frequentavano Ducommun; decine di loro trascinavano via dei bambini, piangendo per il sollievo.
Gli edifici apparivano tutti intatti. Michiko e Lloyd sbuffavano e ansimavano mentre continuavano a correre sul prato immacolato. Per lunga tradizione la scuola esponeva sulla facciata anteriore le bandiere delle nazioni di origine di tutti i ragazzi; Tamiko era l’unica giapponese attualmente iscritta, ma il sol levante sventolava al vento leggero di primavera.
Riuscirono a giungere all’atrio, che aveva splendidi pavimenti in marmo e le pareti rivestite di pannelli di legno scuro. L’ufficio era proprio sulla destra, e Michiko vi si diresse facendo strada a Lloyd. La porta si aprì, rivelando un lungo bancone in legno che separava la segreteria dal pubblico. Michiko si precipitò al bancone e, scossa da fremiti ansimanti, cominciò a dire: «Salve, sono…»
«Oh, signora Komura» disse una donna emersa da una stanza. «Ho cercato di chiamarla ma non sono riuscita a prendere la linea.» Fece una pausa, sembrava a disagio. «La prego, si accomodi.»
«Dov’è Tamiko?» chiese Michiko.
«Per favore» disse la donna. «Si sieda.» Guardò Lloyd. «Io sono madame Severin; sono la direttrice, qui.»
«Lloyd Simcoe, sono il fidanzato di Michiko.»
«Signora Komura, sono così dispiaciuta. Io…» Si interruppe, deglutì, poi riprese: «Tamiko era all’esterno. Una macchina ha fatto irruzione nel parcheggio, e… mi dispiace tanto.»
«Come sta?» chiese Michiko.
«Tamiko è morta, signora Komura. Tutti noi… io non so cosa sia successo; abbiamo avuto tutti uno svenimento, o qualcosa del genere. Quando siamo rinvenuti, l’abbiamo trovata lì.»
Gli occhi di Michiko si riempirono di lacrime. Lloyd provò un’orribile stretta al petto. Michiko trovò una sedia, vi si accasciò e affondò la faccia tra le mani. Lloyd le si inginocchiò accanto e le pose un braccio attorno alle spalle.
«Mi dispiace» disse la signora Severin.
Lloyd annuì. «Non è stata colpa sua.»
Michiko continuò a singhiozzare per un po’, poi sollevò gli occhi rossi di pianto. «Voglio vederla.»
«È ancora nel parcheggio. Mi dispiace… l’abbiamo chiamata, la polizia, ma ancora non sono arrivati.»