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Theo pensò che fra poco sarebbe svenuto per il dolore. Si voltò a guardare. Rusch stava oltrepassando il carrello abbandonato da Theo. La monorotaia utilizzava il sistema della levitazione magnetica, ed era in grado di raggiungere una notevole velocità, ma naturalmente nessuno l’aveva mai messa alla prova al limite delle sue possibilità all’interno della galleria.

Fino a ora.

Le cifre luminose della bomba segnavano otto minuti.

Un’altra pallottola gli fischiò vicino, mancando il bersaglio. Theo si girò appena in tempo per vedere il carrello di Rusch precipitarsi oltre la curva del tunnel.

Theo sporse la testa dal finestrino della cabina, e il vento gli investì la faccia. «Andiamo» disse. «Andiamo…»

Le pareti ricurve della galleria gli scorsero davanti abbagliandolo. I generatori della levitazione magnetica ronzavano rumorosamente.

Eccoli: Jake e Moot, il fisico che assisteva il poliziotto, il quale si era tirato su a sedere, miracolosamente vivo. Theo gli fece un cenno con la mano mentre la monorotaia li oltrepassava a tutta velocità.

Altri chilometri, poi…

Sessanta secondi.

Non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungere la stazione di accesso remoto, né a risalire in superficie. Forse doveva semplicemente gettare via la bomba; sì, avrebbe messo fuori uso l’LHC, dovunque esplodesse, ma…

No.

No, si era spinto troppo avanti… e su di lui non c’era il marchio del destino: la sua morte non era preordinata.

Se solò…

Tornò a guardare il timer, poi i segni lungo la parete.

Sì!

Sì! Poteva farcela!

Sollecitò il treno a una velocità ancora maggiore.

E poi…

Il tunnel si allargò.

Theo pigiò sul freno d’emergenza.

Un’altra nuvola di scintille.

Metallo contro metallo.

La sua testa scagliata in avanti…

Un dolore atroce alla spalla…

Theo si lanciò oltre il bordo della cabina bloccata e si allontanò barcollando dalla monorotaia.

Quarantacinque secondi…

Percorse con passo incerto pochi metri lungo la galleria…

Fino all’entrata dell’enorme sala vuota, alta come un palazzo di sei piani, che una volta aveva ospitato il rilevatore CMS.

Fece forza su se stesso per avanzare, entrare nella sala, sistemare la bomba del bel mezzo dell’ampio spazio vuoto.

Trenta secondi.

Si voltò, corse più veloce che poteva, atterrito nel vedere il fiume di sangue che si lasciava dietro…

Di nuovo alla monorotaia…

Quindici secondi.

Dentro la cabina, scavalcando il bordo, un colpo sull’acceleratore…

Dieci secondi.

Via di corsa lungo il binario fissato al soffitto…

Cinque secondi.

Oltre la curva del tunnel…

Quattro secondi.

Quasi svenuto per il dolore…

Tre secondi.

Sollecitando il treno alla massima velocità.

Due secondi.

Coprendosi la testa con le mani, mentre la spalla protestava con violenza al gesto di sollevare il braccio destro…

Un secondo.

Con appena il tempo di domandarsi ciò che il futuro serbasse…

Zero!

Boom!

L’esplosione che rimbomba nel tunnel.

Una vampa di luce da dietro le spalle che proietta l’ombra enorme della forma insettoide della monorotaia contro la parete ricurva del muro…

E poi…

L’oscurità gloriosa, che guarisce, mentre il treno corre via e Theo si accascia sul minuscolo cruscotto.

Due giorni dopo.

Theo era nella sala di controllo dell’LHC. La sala era affollata, ma non di scienziati e ingegneri… era quasi tutto automatizzato. Tuttavia c’erano decine di giornalisti, tutti sdraiati sul pavimento. Naturalmente c’era anche Jake Horowitz, così come gli ospiti d’onore di Theo, il detective Helmut Drescher, con un bendaggio rigido alla spalla, e la sua giovane moglie.

Theo diede inizio al conto alla rovescia, poi si sdraiò anche lui al suolo, aspettando che la cosa accadesse.

31

Lloyd Simcoe pensava spesso a sua figlia Joan, sette anni, che adesso viveva in Giappone. Naturalmente si parlavano un giorno sì e un giorno no per videofono, e Lloyd cercava di convincersi che vederla e parlarle fosse la stessa cosa che coccolarla e tenerla sulle ginocchia e passeggiare con lei nel parco, mano nella mano, e asciugarle le lacrime quando cadeva e si sbucciava un ginocchio.

L’amava moltissimo ed era talmente orgoglióso di lei da non riuscire a esprimerlo a parole. Certo, malgrado il suo nome occidentale, non gli assomigliava nemmeno un po’: i suoi lineamenti erano del tutto asiatici. Ma soprattutto assomigliava in modo straordinario alla povera Tamiko, la sorellastra che non avrebbe mai conosciuto. L’aspetto esteriore, comunque, non contava; la metà di ciò che Joan era, proveniva da Lloyd. Più del suo premio Nobel, più di tutte le pubblicazioni che aveva scritto da solo o in collaborazione, lei era la sua immortalità.

E anche se veniva da un matrimonio che non era durato, Joan stava crescendo proprio bene. Oh, Lloyd non aveva dubbi che qualche volta la bambina desiderasse rivedere i suoi genitori insieme. Però Joan era venuta al matrimonio di Lloyd con Doreen, conquistando il cuore di tutti come damigella della donna che ben presto sarebbe diventata la sua matrigna.

Matrigna. Sorellastra. Ex-moglie. Ex-marito. Nuova moglie. Permutazioni: la panoplia delle interazioni umane, dei diversi modi di formare una famiglia. Ormai quasi nessuno si sposava con grandi cerimonie, ma Lloyd aveva insistito. La legge di quasi tutti gli stati e provincie del Nord America sosteneva che se due adulti vivevano insieme per un tempo sufficiente, erano sposati, e se smettevano di vivere insieme, non lo erano più. Chiaro e semplice, senza tante storie… e senza nessuno dei dispiaceri che i genitori di Lloyd avevano patito, senza le scenate e le sofferenze a cui lui e Dolly avevano assistito, a occhi sgranati, impietriti da quello spettacolo, mentre il mondo crollava loro addosso.

Invece Lloyd aveva voluto la cerimonia; ne aveva fatto a meno fin troppo, per la sua paura di creare un’altra famiglia destinata a spezzarsi… tra l’altro, Lloyd aveva notato che l’ultima edizione del Merriam-Webster bollava il termine famiglia come ‘arcaico’. Lloyd era assolutamente determinato a non farsi più condizionare dal passato. E così lui e Doreen avevano fatto le cose in grande: una festa magnifica, a detta di tutti, una notte da ricordare, piena di danze, e di canti, e di risate e d’amore.

Doreen era già in menopausa quando loro due si erano messi insieme. Naturalmente adesso esistevano procedimenti e tecniche particolari, e se lei avesse voluto un figlio avrebbe ancora potuto averne uno. Lloyd ne sarebbe stato ben felice; era già padre, ma non le avrebbe certo negato la possibilità di diventare madre. Ma Doreen aveva rifiutato. Era già soddisfatta della sua vita prima di incontrare Lloyd, e da quando stavano insieme la sua soddisfazione era aumentata… ma non smaniava per avere un figlio, non cercava l’immortalità.

Adesso che Lloyd era andato in pensione, i due trascorrevano un bel po’ di tempo insieme nel loro cottage nel Vermont. Naturalmente entrambe le loro visioni li avevano mostrati lì, in quel giorno. Avevano sistemato ridendo la stanza da letto, facendola sembrare il più possibile uguale a come l’avevano vista la prima volta, collocando con precisione il piccolo comodino in pannello truciolare e lo specchio da parete in pino nodoso.

E adesso Lloyd e Doreen erano sdraiati sul loro letto, uno accanto all’altra; lei indossava addirittura una camicia Tilley color blu marina. Attraverso la finestra si vedevano gli alberi adorni di colori sgargianti. I due avevano le dita intrecciate. La radio era accesa, e trasmetteva il conto alla rovescia per l’arrivo dei neutrini.