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— Troppo…? — chiese lei.

— … cotto — finì lui scherzosamente.

— Forse ho lavorato troppo. Questa sera saremo ospiti del barone Ver Dorco. Credo che potremo rilassarci un po’.

— Ver Dorco? — domandò Mollya.

— È il coordinatore dei diversi progetti di ricerca contro gli Invasori.

— Allora è qui che costruiscono tutte quelle grosse armi segrete? — volle sapere Ron.

— Possono anche essere piccole, e di solito sono le più mortali — intervenne Calli.

— A ’ro’osito di quei tentativi di sabotaggio — cominciò Ottone. Rydra aveva dato loro qualche informazione su ciò che stava succedendo. — Se ne andasse a segno uno qui ai Cantieri di Guerra, sarebbe un brutto col’o ’er noi.

— Quasi come piazzare una bomba sotto il Quartier Generale Amministrativo dell’Alleanza.

— Riuscirete a impedirlo? — chiese la Lumaca.

Rydra sospirò, voltandosi verso le traslucide presenze degli osservatori discorporati. — Ho avuto un paio di idee. Ora ascoltatemi, sto per chiedervi di fare qualcosa di poco consono alle leggi dell’ospitalità, stasera. Dovrete fare un po’ di spionaggio per conto vostro. Occhio, voglio che tu rimanga a bordo dell’astronave e che ti assicuri che non ci sia nessun altro. Orecchio, quando andremo dal barone dovrai diventare invisibile e non allontanarti da me finché non saremo tutti di ritorno alla nave. Naso, tu manterrai le comunicazioni fra noi e la nave. Sta succedendo qualcosa che non mi piace per nulla. E non so se è solo la mia fantasia o che altro.

L’Occhio disse qualcosa con tono sinistro. Di solito, i corporei potevano parlare con i discorporati e ricordare le loro parole soltanto mediante speciali accorgimenti tecnici. Altrimenti tutto svaniva in pochi secondi come neve al sole. Rydra aveva risolto quel problema per sé traducendo immediatamente qualsiasi cosa le venisse detta in dialetto Basco, prima che il debole ricordo delle parole svanisse del tutto dalla sua mente. E ora, benché le parole originali fossero già state scordate, la traduzione rimaneva: “Quei circuiti spezzati non erano nella vostra immaginazione” era il nucleo della frase in Basco che ora ricordava.

Lasciò che i suoi occhi scorressero sconfortati sull’equipaggio assiepato dinanzi a lei. Se qualcuno dei ragazzi o degli ufficiali avesse sofferto soltanto di una psicosi distruttiva, il suo psico-indice lo avrebbe mostrato. Così invece c’era fra di loro qualcuno che intendeva distruggere coscientemente. Ricordò come li aveva cercati, uno per uno, quella notte. Orgoglio. Un caldo orgoglio per il modo in cui quei ragazzi avevano saputo far muovere la sua nave attraverso le stelle. Quel calore che dentro di lei le lasciava chiaramente capire come nulla avrebbe funzionato a bordo della macchina-chiamata-nave, se la macchina-chiamata-equipaggio non fosse stata sincronizzata e precisa. E insieme, un freddo orgoglio in un’altra parte della mente, alla vista della tranquillità con la quale tutti loro si muovevano a bordo: i ragazzi, così privi di esperienza nella vita e nel lavoro, e gli adulti, così vulnerabili alle situazioni che avrebbero potuto scardinare la loro lucida efficienza e lanciarli a cozzare gli uni contro gli altri. Ma lei li aveva scelti, e la nave, il loro mondo, era un luogo meraviglioso per camminare, lavorare, vivere durante ogni giorno.

Ma c’era un traditore.

A quel pensiero ne seguì automaticamente un altro.

“In qualche luogo dell’Eden, allora…” ricordò, sfiorando ancora l’equipaggio con lo sguardo. “In qualche luogo dell’Eden, allora, un verme, un verme!” Quelle maledette piastre glielo ripetevano: il verme non voleva distruggere solo lei, ma l’intera nave, il suo equipaggio, e lentamente. Non lame tuffate nella notte, non colpi dall’angolo di una strada, nessun laccio intorno al collo entrando in una cabina buia. Una lenta ossessione nascosta. Ma quale parte poteva avere Babel-17 in quella storia?

— Lumaca, il barone vuole che io arrivi in anticipo per mostrarmi le ultime armi. Bada che i ragazzi arrivino puntuali. Io vado. Occhio e Orecchio, saltate a bordo.

— Okay, capitano — disse la Lumaca.

I discorporati sbiadirono come fumo nel tramonto.

Lei guidò il suo disco verso il viale, scivolando fra l’attonita curiosità dell’equipaggio.

3

— Rozze armi barbariche. — Il barone gesticolò con sufficienza verso la lunga fila di cilindri in plastica allineati in ordine di grandezza lungo la rastrelliera. — È inutile perdere tempo su questi antiquati congegni. Il più piccolo può distruggere un’area di centotrenta chilometri quadrati all’incirca, mentre il più grande lascia un cratere profondo quaranta chilometri e largo trecentosettanta. Barbarico. Mi sento rabbrividire al pensiero che possano ancora essere usate armi simili. Quella a sinistra è già abbastanza ingegnosa: esplode una prima volta con forza sufficiente a demolire un complesso di edifici piuttosto vasto, ma la bomba vera e propria viene ricoperta e protetta da queste macerie. Sei ore dopo esplode di nuovo, stavolta compiendo gli stessi danni di una bomba atomica di media potenza. Questo ritardo lascia alle vittime il tempo necessario per fare affluire sul posto i reparti medici e di ricostruzione, e soprattutto gli esperti che dovrebbero stabilire l’entità dei danni. Allora puf. Un’esplosione ritardata all’idrogeno e un buon cratere di quaranta o sessanta chilometri. I danni materiali sono minori di quelli provocati dalla più piccola bomba della nuova serie, ma se non altro in questo modo si eliminano molti mezzi pesanti di soccorso e una quantità di personale di pronto intervento. Comunque, rimane pur sempre un’arma da scolaretti. Le conservo tutte nella mia collezione personale solo per dimostrare che disponiamo anche della produzione standard.

Rydra seguì il barone sotto la volta che immetteva nella sala seguente. C’erano diversi armadietti metallici lungo le pareti e un’unica teca di vetro al centro della stanza.

— Ora ecco un’arma di cui mi sento giustamente orgoglioso. — Il barone si avvicinò alla teca e le pareti trasparenti scivolarono di lato.

— Di che cosa si tratta, con esattezza? — chiese Rydra.

— A cosa assomiglia?

— A… un pezzo di roccia.

— A un frammento metallico — la corresse lui.

— Esplosivo? Oppure è particolarmente duro?

— Non può esplodere — le assicurò il barone. — La sua durezza è leggermente superiore a quella dell’acciaio al titanio, ma possediamo materie plastiche ben più dure.

Rydra fece per avvicinare una mano, poi pensò che avrebbe fatto meglio a chiedere il permesso. — Posso raccoglierlo per esaminarlo da vicino?

— Ne dubito — disse il barone. — Comunque potete provare.

— Cosa succederà?

— Lo vedrete con i vostri occhi.

Rydra allungò la mano per afferrare il metallo opaco, ma le dita si chiusero sull’aria a cinque centimetri dalla sua superficie. Mosse le dita verso il basso per toccarla, e ancora il frammento sembrò scivolare di lato. Rydra aggrottò la fronte.

— Aspettate — il barone sorrise, raccogliendo per lei lo strano oggetto. — Se capitasse di vedere una cosa come questa sul terreno, non la guardereste certo due volte, vero?

— È velenoso? — suggerì Rydra. — O è un componente di qualcosa d’altro?

— No. — Il barone giocherellò con quell’ombra scura. — Si tratta soltanto di un materiale altamente selettivo. E obbediente. — Alzò di colpo la mano verso di lei. — Immaginate di avere bisogno di una pistola — …nella mano del barone c’era ora un lucido vibratore di un modello che Rydra non aveva mai visto prima… — o di una chiave a doppio uso. — Ora stringeva una chiave inglese lunga trenta centimetri. Con due dita ne aggiustò l’apertura. — O di un machete. — La lama scintillò mentre lui spostava indietro il braccio. — O di una piccola balestra. — L’impugnatura di legno era solida fra le dita del barone e la molla d’acciaio tesa in posizione di lancio. Rydra lo vide schiacciare il grilletto (non c’era freccia) e lo schiocco secco della molla liberata, seguito dalla vibrazione della minuscola asticciola elastica, le fece serrare d’impulso i denti.