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Il sorriso era scomparso dalle labbra di lei, e ora entrambe le mani erano appoggiate sul banco. Il generale avrebbe voluto ritrattare le sue parole dure. Lei disse: — Non mi pare che voi siate direttamente connesso con il Dipartimento Crittografico. — La voce era piatta, calmante.

Lui scosse il capo.

— Allora lasciate che vi spieghi. Fondamentalmente, generale Forester, esistono due tipi di codici. Nel primo, delle lettere, o dei simboli che stanno al loro posto, vengono mescolate e confuse secondo uno schema prestabilito. Nel secondo, lettere, parole o gruppi di parole sono sostituiti con altre lettere, simboli o parole. Un codice può essere formato in uno di questi due modi, o con una combinazione di entrambi, ma i codici risultanti hanno sempre una cosa in comune: una volta trovata la chiave, è sufficiente applicarla al codice e ne escono delle frasi logiche. Una lingua, invece, possiede una sua logica interna, una sua grammatica, un suo modo specifico di associare pensieri a parole che abbracciano diversi livelli di significato. Non esiste mai in questo caso una chiave che si possa usare per decifrare l’esatto significato. Tutt’al più ci si può avvicinare con una buona approssimazione.

— Intendete dire che Babel-17 deve essere decifrato in un’altra lingua?

— Niente affatto. Questa è la prima cosa che ho voluto controllare. Si può compilare una lista di probabilità su vari elementi e vedere se si accordano con i moduli di altre lingue, anche se gli elementi sono disposti in un ordine sbagliato. Ma non ha funzionato. Babel-17 è essa stessa una lingua che noi non comprendiamo.

— Mi pare — il generale Forester cercò di sorridere — che stiate cercando di dirmi che poiché non si tratta di un codice, ma bensì di una lingua aliena, potremmo anche arrenderci subito. — Se doveva essere una sconfitta, saperlo da lei era quasi un sollievo.

Ma lei scosse il capo. — Temo che mi abbiate del tutto fraintesa. Lingue sconosciute sono già state decifrate, prima d’ora, senza traduzioni: la lingua degli Hittiti, per esempio, e il Lineare B. Ma per proseguire nello studio di Babel-17, dovrò sapere molto di più.

Il generale inarcò le sopracciglia. — Cos’altro vi serve sapere? Vi abbiamo consegnato tutti i campioni in nostro possesso. Non appena ne avremo altri, certo…

— Generale, io devo essere informata di tutto quello che voi sapete su Babel-17; quando lo avete scoperto per la prima volta, in quali circostanze, ogni cosa che possa darmi un indizio sul suo contenuto.

— Vi abbiamo fornito tutte le informazioni che noi…

— Voi mi avete dato dieci pagine dattiloscritte piene di monconi con il nome in codice Babel-17, e mi avete chiesto che cosa significassero. Ora, con questo materiale non posso dirvelo. Ma con qualcosa d’altro, forse potrei. È semplice.

Il generale pensò: “Se fosse così semplice, se solo fosse così semplice, noi non avremmo mai cercato il vostro aiuto, Rydra Wong.”

Lei disse:

— Se fosse così semplice, se solo fosse così semplice, voi non avreste mai cercato il mio aiuto, generale Forester.

Lui sobbalzò, per un assurdo momento convinto che lei avesse letto nella sua mente. Ma non era possibile. Oppure sì?

— Generale Forester, il vostro Dipartimento Crittografico ha almeno scoperto che si tratta di una lingua?

— Se lo hanno fatto, non ne sono ancora stato informato.

— Sono quasi certa che loro non lo sanno. Io ho cercato di analizzare le possibili strutture grammaticali. Loro lo hanno fatto?

— No.

— Generale, benché quella gente sappia tutto a proposito dei codici, non conosce quasi nulla della reale natura del linguaggio. Questo genere di specializzazione idiota è stato uno dei motivi per cui mi sono rifiutata di lavorare con loro negli ultimi sei anni.

“Chi è questa donna?” si chiese ancora il generale. L’incartamento con il suo nome gli era stato portato quella mattina da un uomo della Sicurezza, ma lui lo aveva passato al suo aiutante e solo più tardi aveva notato che era stato stampigliato con un rosso ’Approvato’. Udì se stesso dire: — Forse, se mi raccontaste qualcosa di più sul vostro conto, signorina Wong, potrei parlare più liberamente. — Si accorse di aver pronunciato quelle parole con calma misurata e con sicurezza. Era illogico, eppure… lei lo stava forse guardando con ironia?

— Che cosa volete sapere?

— Quello che già conosco si riduce a ben poca cosa: il vostro nome, e il fatto che qualche tempo fa avete lavorato per il nostro Dipartimento Crittografico. So che quando ve ne siete andata eravate molto giovane, ma che la vostra reputazione era già notevole. Per questo motivo le persone che si ricordavano di voi, a sei anni di distanza, dopo aver perso inutilmente il sonno per un mese su Babel-17, hanno concluso all’unanimità dicendo: “Mandatelo a Rydra Wong”. — Fece una pausa. — E voi mi dite di avere già raggiunto qualche risultato. Dunque, avevano ragione.

— Beviamo qualcosa — disse lei.

Il barista fece una puntata nella loro direzione e si allontanò quasi subito, lasciando sul banco due bicchierini colmi di un liquido verde e torbido. Lei bevve un sorso, osservando il generale. “I suoi occhi” pensò il generale “sembrano inclinati come due ali colte di sorpresa.”

— Non sono nata sulla Terra — disse lei. — Mio padre era ingegnere alle comunicazioni sul Centro Stellare X-11-B appena oltre Urano. Mia madre faceva l’interprete presso il Tribunale dei Mondi Esterni. Fino ai sette anni sono stata la monella più viziata di tutto il Centro Stellare. Non c’erano molti altri bambini. Ci trasferimmo su Urano-XXVII nel ’52. A dodici anni conoscevo già sette lingue terrestri e riuscivo a farmi capire in altre cinque extraterrestri. Riuscivo a imparare le lingue così come altre persone imparavano i testi delle canzoni più in voga. I miei genitori morirono durante il secondo embargo.

— Eravate su Urano durante l’embargo?

— Sapete che cosa successe?

— So che i Pianeti Esterni furono colpiti molto più duramente di quelli Interni.

— Allora non lo sapete. Comunque, sì, fu molto più duro. — Tirò un profondo sospiro, a quei ricordi che ancora la sorprendevano. — Temo che un solo bicchiere sia troppo poco per farmi parlare di queste cose. Quando uscii dall’ospedale, c’era la possibilità che avessi sofferto lesioni cerebrali.

— Lesioni cerebrali…?

— Dovreste conoscere gli effetti della denutrizione. Aggiungeteci un’epidemia di neurosciatica.

— So di quell’epidemia.

— Comunque, venni mandata sulla Terra presso una coppia di zii per essere sottoposta a neuroterapia. Solo che non ne ebbi alcun bisogno. Non so se la causa sia stata psicologica o fisiologica, ma uscii da quella situazione dotata di una memoria verbale totale. C’ero andata molto vicina anche negli anni precedenti della mia vita, e così non mi parve poi tanto strano. Ma adesso possedevo anche un controllo perfetto delle tonalità.

— Di solito questo fenomeno non si accompagna a una velocissima capacità di calcolo e a una memoria eidetica? Sono qualità fondamentali per un crittografo.

— Sono una buona matematica, ma non un calcolatore lampo. Ho riflessi veloci per sollecitazioni visive e le relazioni spaziali (sogni in technicolor e cose del genere) ma la mia memoria totale è strettamente verbale. Avevo già incominciato a scrivere, a quell’epoca. Durante l’estate accettai un incarico del governo per alcune traduzioni e incominciai a interessarmi di codici. In poco tempo mi accorsi che avevo una certa… abilità. Io non sono una buona crittografa: non ho la pazienza per lavorare e sudare sangue su una cosa scritta da qualcun altro. E inoltre sono nevrotica come l’inferno; un’altra ragione per la quale sono passata alla poesia. Ma la mia “abilità” era in un certo senso una cosa che spaventava. Quando dovevo lavorare sodo per qualche incarico che in realtà non mi interessava minimamente e avevo un paio di supervisori che non la smettevano di venirmi a respirare sul collo per controllare il mio lavoro, non so come, ma di colpo tutte le mie nozioni di crittografia e di decodificazione mi passavano velocissime dinanzi agli occhi, e per me era facilissimo leggere la pagine che mi stavano davanti e dire il loro significato. E tutto per non sentirmi poi stanca e impoverita per un lavoro che non mi piaceva.