E una nuova, più tremenda ondata; si sentì scagliata lontana dal suo sedile e vide Ottone annaspare con gli artigli nell’aria. E…
PARTE TERZA
Jebel Tarik
1
Pensieri astratti in una stanza azzurra: nominativo, genitivo, elativo, primo accusativo, secondo accusativo, ablativo, partitivo, illativo, istruttivo, abessivo, adessivo, essivo, allativo, traslativo, comitativo. I sedici casi del sostantivo in finlandese. Curioso, alcune lingue se la cavano solo con il singolare e il plurale. Le lingue degli indiani d’America mancavano addirittura della nozione di numero. Tranne per la lingua dei Sioux, dove esisteva un plurale solo per gli oggetti animati. La stanza azzurra era rotonda, liscia e tiepida. Immagina una lingua che non conosca il termine tiepido, perché usa soltanto freddo e caldo. Se non esiste la parola, come puoi pensare a quella sensazione? Se poi non esiste la forma adatta, anche possedendo le parole certe operazioni sono impossibili. Immagina, in spagnolo, di dover assegnare un genere a ogni oggetto: cane, tavolo, albero, apriscatole. Immagina, in ungherese, di non poter assegnare un genere a nulla: lui, lei, esso, tutti la stessa parola. Ai tempi della prima Elisabetta d’Inghilterra l’inglese poteva ancora dire thou art my friend a un amico, ma per il sovrano usava you are my king. E in alcune lingue orientali, che fanno volentieri a meno di genere e numero, tu sei mio amico, tu sei mio padre, tu sei il mio prete, Tu sei il mio re, Tu sei il mio servo che domani licenzierò se non badi a quello che fai, Tu sei il mio re la cui politica mi disgusta e che ha segatura al posto del cervello, Tu puoi anche essere mio amico ma se lo ripeti Ti spacco la faccia, e tu chi diavolo sei, comunque?
“Come ti chiami?” pensò lei nella stanza azzurra rotonda e tiepida.
Pensieri senza nome in una stanza azzurra: “Ursula, Priscilla, Barbara, Mary, Mona e Natica: rispettivamente, Orso, Vecchia Signora, Chiacchierona, Amara, Scimmia, e Gluteo. Nome. Nomi? Cosa c’è in un nome? In quale nome sono io? Nel paese del padre di mio padre, il suo nome sarebbe venuto per primo, Wong Rydra. Nella terra di Mollya, addirittura non porterei neppure il nome di mio padre, ma quello di mia madre. Le parole sono nomi per le cose. Ai tempi di Piatone, le cose erano nomi per le idee… quale migliore descrizione dell’Ideale Platonico? Ma le parole erano nomi per le cose, oppure qui c’era un po’ di confusione semantica? Le parole erano simboli per intere categorie di cose, e il nome indicava un singolo oggetto: però un nome dato a qualcosa che richiede un simbolo stona, e diventa umoristico. Anche un simbolo dato a qualcosa che richiede un nome stona.” Un ricordo che conteneva una finestra rotta, un fiato maschile puzzolente di liquore, la sua femminilità oltraggiata, abiti spiegazzati dietro un tavolino da notte scheggiato, “Bene, donna, vieni qui!” e lei che aveva sussurrato, le mani strette fino a farle male intorno alla sbarra di ottone: “Il mio nome è Rydra!” Un singolo, una cosa distaccata dal proprio ambiente e da tutte le altre cose in quell’ambiente; il singolo era il tipo di cosa per la quale i simboli si erano rivelati inadeguati, e così erano stati inventati i nomi.
“Io sono inventata. Non sono una stanza azzurra rotonda e tiepida. Io sono qualcuno in questa stanza, sono…”
Le sue palpebre si sollevarono a metà sugli occhi. Li aprì completamente e si alzò di colpo, ma il suo slancio fu frenato da una specie di ragnatela elastica. Le mozzò il respiro e dovette tornare giù, girandosi per osservare la stanza.
No.
Lei non “osservò la stanza”.
Lei “qualcosa-qualcosa”. Il primo qualcosa era un minuscolo vocabolo che implicava una percezione immediata ma passiva, e che avrebbe potuto essere tanto uditiva o olfattiva quanto visiva. Il secondo qualcosa consisteva di tre fonemi non meno minuscoli del primo che si fondevano ad altezze musicali diverse: il primo fonema indicava che la stanza era in realtà cubica e con una profondità di circa sette metri, il secondo identificava il colore e la probabile sostanza che componeva le pareti (una specie di metallo azzurrino), mentre il terzo era al tempo stesso una specie di segnaposto per quelle particelle che avrebbero connotato le funzioni della stanza non appena lei le avesse scoperte, e una specie di etichetta grammaticale che avrebbe potuto sostituire con un solo simbolo l’intera esperienza finché lei lo avesse voluto. Tutti e quattro i suoni impiegavano molto meno tempo, a formarsi sulla sua lingua o nella sua mente, di una sola sillaba della goffa parola “stanza”. Babel-17… le era già successo con altre lingue, aveva già sperimentato quel senso di improvvisa apertura mentale, di costrizione ad ampliare i propri confini mentali. Ma questo… questo era come mettere improvvisamente a fuoco una lente rimasta offuscata per anni.
Si alzò a sedere di nuovo. Funzione?
Per che cosa era usata quella stanza? Si mosse lentamente, e la ragnatela le avvolse il petto. Una qualche specie di infermeria. Guardò in giù verso la… non era “ragnatela”, ma piuttosto un suono vocalico formato di tre particelle, ognuna delle quali indicava una pressione in una direzione e lasciava indovinare il punto più debole della maglia quando il suono totale raggiungeva il suo punto più basso di tono. Spezzando i fili in quel punto, se ne accorse con stupore, l’intera ragnatela si sarebbe sciolta. Se lei non avesse intuito la sua formazione e non avesse analizzato il suo nome nella nuova lingua, certo la sua stretta sarebbe stata sufficiente a tenerla al suo posto. La transizione fra “memorizzato” e “conosciuto” doveva aver avuto luogo mentre lei si era trovata…
Dove si trovava? Attesa, eccitazione, paura! Sospinse la propria mente verso l’inglese. Pensare in Babel-17 era come vedere di colpo il fondo di un pozzo che fino a pochi momenti prima si pensava profondo poco più di un metro. Se ne ritrasse con un senso di vertigine.
Le occorse meno di un battito di ciglia per registrare la presenza degli altri. Ottone era disteso in una larga amaca appesa alla parete di fronte… scorse le dentellature di un artiglio giallo pendere oltre il bordo. Le due forme più piccole sull’altro lato dovevano essere ragazzi della squadra. Dall’orlo di una cuccetta vide sporgere un ciuffo di lucidi capelli neri mentre una testa si girava nel sonno: Carlos. Non poteva vedere il terzo. La curiosità divenne un piccolo, ostile pugno che le pesava sull’addome. Poi il muro si scolorì.
Accadde nella parte superiore della parete alla sua sinistra. Dapprima si fece scintillante, poi trasparente, e una lingua di metallo si formò nell’aria scivolando lentamente verso di lei.
Tre uomini.
Il più vicino, all’inizio della rampa metallica, aveva un viso che sembrava formato da minuscoli frammenti di roccia bruna spezzettati con violenza e rimessi insieme affrettatamente. Vestiva un abito antiquato, del tipo che aveva preceduto le cappe biologiche. Si disponeva automaticamente intorno al corpo, ma era formato da una specie di plastica e assomigliava piuttosto a una armatura. Una cappa nera gli copriva una spalla e un braccio. I suoi sandali logori erano allacciati alti alle caviglie. L’unica traccia di chirurgocosmesi era data dai capelli d’argento e dalle sopracciglia metalliche. Dal lobo di un orecchio pendeva un pesante anello d’argento. Mentre fissava le diverse cuccette, sfiorò leggermente la fondina del vibratore che gli poggiava sullo stomaco.
Il secondo uomo era una fantastica elaborazione di invenzioni chirurgocosmetiche, una specie di grifone, o di scimmia, o di cavalluccio marino: scaglie, piume, artigli e un becco erano stati innestati su un corpo che in origine doveva essere stato somigliante a quello di un gatto. Si accucciò accanto al primo uomo, molleggiato sui muscoli delle cosce allungati chirurgicamente, strisciando gli artigli sul pavimento. Guardò verso l’alto quando il primo uomo gli grattò con fare assente la nuca.