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Lei si girò, in attesa del resto della frase. — Lo dica! — esclamò, con voce rotta.

— Il suo bambino — terminò lui a capo chino, con una smorfia di sofferenza.

Vorkosigan le venne accanto. — Vorrei che tu non avessi fatto questo — sussurrò. — Ogni tuo gesto mi parla anche di suo fratello. Perché devo essere la morte per quella famiglia?

— Non vuoi che si penta del modo in cui si è vendicato?

Lui le poggiò la fronte su una tempia, per qualche istante. — Non so cosa voglio. Tu hai svuotato me della rabbia e lui della sua vendetta, mia capitana. Ma, oh… — Allungò una mano a sfiorarle l’addome, poi si rese conto di tutti gli occhi fissi su di loro e la ritrasse. — Raddrizzò le spalle. — Mi faccia avere un rapporto completo in mattinata, Illyan — disse. — All’ospedale.

La prese sottobraccio e si girò per seguire il dottore alla porta. Cordelia non avrebbe saputo dire se stava sostenendo lei o se stesso.

All’Ospedale Militare Imperiale si trovò circondata da una quantità di persone, medici, infermiere, inservienti e guardie del corpo. Aral fu subito portato da qualche altra parte, e lei restò sola e a disagio in mezzo a tutta quella gente. Disse poche parole, lo stretto necessario a chi doveva assisterla, e ringraziò con brevi cenni del capo il personale di Casa Vorkosigan che le restava attorno, ostacolando il lavoro dei medici, per chiederle di cosa avesse bisogno. Avrebbe preferito che lo shock la stordisse, o essere svenuta, o un attacco isterico, o qualunque altra cosa che non fosse la lucidità. Invece si sentiva soltanto sfinita.

Il bambino continuava a muoversi dentro di lei. Evidentemente la sostanza teratogenica dell’antidoto avrebbe agito con insidiosa lentezza. Veniva lasciato loro un altro po’ di tempo insieme, a quanto pareva, e attraverso la sua pelle lei lo amò, muovendo le dita in un lento massaggio sull’addome. Benvenuto, figlio mio, nel mondo cannibalesco di Barrayar… un mondo che non ha neppure aspettato i tuoi diciott’anni per metterti sulla lista dei condannati. Un pianeta rapace.

Fu messa a letto in una lussuosa stanza privata, nell’ala più esclusiva e protetta dell’ospedale, frettolosamente preparata per accoglierla. Pochi minuti dopo scoprì con sollievo che Vorkosigan aveva la stanza di fronte alla sua, dall’altra parte del corridoio. Vestito in un pigiama verde, militaresco, il marito entrò subito da lei e sedette accanto al letto. Cordelia riuscì a dargli un sorriso, ma non tentò neppure di sedersi. Un’oscura forza di gravità la stava spingendo giù verso il centro del mondo. Soltanto la concretezza del letto, quella dell’edificio, e la crosta superficiale del pianeta la tenevano lì dove stava, non la sua volontà.

Vorkosigan era stato seguito da un ansioso infermiere, che disse: — Ricordi, signore, di non parlare troppo. Non prima che il dottore le abbia fatto le irrigazioni bronchiali.

Fuori dalla finestra, la luce grigia dell’alba stava schiarendo le nuvole. Lui le prese una mano e la accarezzò. — Hai la febbre, mia capitana — disse, raucamente. Cordelia annuì. Respirare le costava uno sforzo, aveva una spina conficcata in gola, e cominciava a sentire un dolore caldo nei seni frontali.

— Avresti dovuto impedirmi di accettare questo lavoro — disse lui. — Mi dispiace…

— Ti ho incoraggiato ad accettarlo. Tu mi avevi avvertito. Non hai colpa di nulla. Era la cosa giusta, per te. L’unica.

Lui scosse il capo. — Non parlare. Potresti danneggiare la mucosa delle corde vocali.

Cordelia sospirò un: — Ah! — senza voce, e gli poggiò un dito sulle labbra perché anche lui tacesse. Vorkosigan annuì, rassegnato, e per un poco si guardarono in silenzio. Lui le scostò dolcemente una ciocca di capelli dalla fronte, e lei catturò la sua mano larga per tenersela stretta su una guancia, finché un paio di dottori e dei tecnici vennero a prelevarlo per fargli le irrigazioni.

— Stia pronta. Subito dopo sottoporremo anche lei allo stesso trattamento, milady — la minacciò scherzosamente uno di loro.

Quando tornarono, dopo un po’, Cordelia dovette fare lunghi gargarismi con un disgustoso liquido verde, respirare gas da un boccaglio e sforzarsi di ruttare. Un’infermiera le applicò i sensori dei monitor, e un’altra le portò la colazione, che lei non ebbe la forza di toccare.

Poi nella stanza entrò un piccolo comitato di medici dalla faccia aggrondata. Quello della Residenza Imperiale, che li aveva assistiti a casa, era adesso elegantemente vestito. Con lui c’erano il Dr. Piasek, l’ostetrico dell’ospedale che l’aveva già visitata diverse volte, e un uomo più giovane, bruno, con l’uniforme verde del Servizio e le mostrine di capitano sul colletto.

Piasek le presentò gli altri due. — Il dottor Krisopulos lo ha già conosciuto stanotte, milady. Questi è il capitano Vaagen, del reparto ricerche dell’OMI. È il nostro esperto per gli aggressivi chimici di uso bellico.

— Studia come produrli o come difendersi da essi, capitano? — domandò Cordelia.

— Entrambe le cose, milady — disse lui, fermo in posizione di riposo militaresco.

Piasek aveva la faccia di chi ha estratto la paglia più corta, anche se si sforzava d’apparire tranquillizzante. — Milady, il Lord Reggente mi ha chiesto di informarla sul programma di trattamenti a cui verrà sottoposta nei prossimi giorni. Penso, comunque… — Si schiarì la gola, — che sarebbe meglio se parlassimo innanzitutto dell’aborto. La sua gravidanza è già fin troppo avanzata. Non ci sono difficoltà per questo, ma per garantirle una buona ripresa è meglio che lei torni in condizioni psichiche almeno accettabili al più presto possibile.

— Non c’è niente che si possa fare? — chiese disperatamente lei, vedendo già la risposta sulle loro facce.

— Ho paura di no — mormorò tristemente Piasek. Krisopulos annuì con enfasi a quelle parole.

— Io ho esaminato le ricerche fatte in materia — disse il capitano medico, guardando fuori dalla finestra. — Si sono fatti degli esperimenti sulla calcificazione ossea del feto. A dire il vero, i risultati non sono stati particolarmente notevoli…

— Pensavo che fossimo d’accordo di non accennarne neppure — lo interruppe il medico della Residenza Imperiale.

— Vaagen, parlarne è una crudeltà — disse Piasek. — Non mi sembra lecito sollevare false speranze, né portare Lady Vorkosigan in uno dei suoi laboratori per tentare un colpo alla cieca come fosse una cavia. Lei ha il permesso del Reggente di occuparsi dell’autopsia del feto e… forse dovrebbe limitarsi a questo.

Il mondo di Cordelia si capovolse in un secondo e guardò meglio l’uomo che parlava delle sue idee. Conosceva il tipo: etico fin dove la sua ambizione lo consentiva, soddisfatto a metà, convinto di poter valere di più, e sempre pronto a balzare da un progetto all’altro purché vi fossero le premesse per farlo salire verso il massimo livello. Lei non era nulla per Vaagen, personalmente, se non una possibile fonte di materiale per una monografia. I rischi che lei poteva correre non lo preoccupavano; non la vedeva come una persona, ma come un caso medico. Cordelia gli sorrise, lentamente, duramente, riconoscendo in lui una specie di alleato in campo nemico.

— Ha qualche idea, dottor Vaagen? Le piacerebbe firmare un articolo capace di mandare in orbita la sua carriera professionale?

Krisopulos ebbe una risata secca. — Non avresti dovuto gettare l’esca, Vaagen. Non è stato corretto.

Lui le sorrise, sorpreso d’esser stato capito così in fretta. — Lei si rende conto che non posso garantirle il risultato…

— Il risultato! — lo interruppe Piasek. — Santo cielo, sarebbe meglio che tu le dicessi qual è il tuo concetto di «risultato». O che le mostrassi le fotografie dei… no, questo no di certo. — Si rivolse a lei. — Milady, il trattamento di calcificazione a cui Vaagen accennava è stato tentato una ventina d’anni fa. Le madri hanno subito danni irreparabili. E il risultato… il miglior risultato in cui lei potrebbe sperare, sarebbe un figlio deforme. Forse anche peggio, indescrivibilmente peggio.