— Ma non nel modo naturale. Non senza lasciare Barrayar.
— Oppure cambiando Barrayar. Dannazione! - Il suo tono aspro lo indusse a ritrarre la mano. — Se io avessi insistito fin dall’inizio per la gestazione in un simulatore, il bambino non avrebbe mai corso questo pericolo. Io sapevo che era più sicuro, e sapevo che c’era l’impianto per… — La sua voce si spezzò.
— Sshh. Sshh. E se io non avessi… accettato questo lavoro, e se ti avessi lasciata a Vorkosigan Surleau, e se avessi fatto graziare quel maledetto idiota di Carl. Per l’amor del cielo. Sarebbe bastato premunirsi dormendo in camere separate…
— No! — Lei gli poggiò una mano su un ginocchio, con forza. — E non ho neppure intenzione di dormire in un rifugio antiaereo per i prossimi quindici anni. Aral, questo mondo deve cambiare. Così è insopportabile. — Se soltanto non fossi mai venuta qui.
Se soltanto. Se soltanto. Se soltanto.
La sala operatoria era luminosa e pulita, anche se non del tutto equipaggiata secondo lo standard galattico. Distesa sul soffice lettino antigravità Cordelia si girò a osservare le apparecchiature. Luci, monitor, il tavolo operatorio, il tavolo del ferrista, un altro tavolino con due bacinelle cromate, un tecnico che controllava un grosso contenitore di liquido giallo pieno di bollicine. Questo, cercò di dirsi, non era un punto di non-ritorno; era semplicemente il primo di una serie di altri passi logici.
Il capitano Vaagen e il Dr. Henry, in camice sterile, erano in attesa dall’altra parte del tavolo. Accanto a loro c’era un simulatore uterino portatile, un parallelepipedo alto mezzo metro, con un pannello di comandi e uno sportello trasparente. Su di esso erano accese spie luminose verdi e ambra. Nel suo interno i collegamenti per l’ossigeno e il liquido nutritivo erano pronti ad accogliere l’ospite. Cordelia fu sollevata nel vederlo. Il primitivo stile barrayarano di gestazione altro non era che un trionfo delle emozioni sulla razionalità. Lei aveva fatto di tutto per adeguarsi, per compiacerli, per diventare una docile cittadina di Barrayar… E mio figlio ne ha pagato il prezzo. Non accadrà mai più.
Il Dr. Ritter, il chirurgo, era un giovanotto alto e bruno, con la pelle olivastra e lunghe mani sottili. A Cordelia quelle mani erano piaciute dal primo momento che le aveva viste. Mani sicure. Il tecnico la aiutò a trasferirsi sul tavolo operatorio. Ritter le elargì un sorriso rassicurante. — Ottimo. Lei si sta comportando molto bene.
Certo, che mi sto comportando bene. Non abbiamo ancora cominciato, pensò lei, seccata. Il chirurgo le sembrava nervoso, anche se la sua tensione si fermava all’altezza dei gomiti. Era un amico di Vaagen, che l’aveva praticamente arruolato a forza dopo che entrambi avevano trascorso una giornata a contattare una lista di colleghi più esperti, nessuno dei quali aveva voluto saperne di prendersi la responsabilità dell’intervento.
Vaagen presentò se stesso e la sua squadra operatoria a Cordelia in modo bizzarro. — Come definirebbe quattro omaccioni mascherati e armati di lame affilate, a quest’ora tarda e buia?
— Cosa?
— Una brutta serata per un Vor — spiegò lui, ridacchiando. Il senso dell’umorismo di Vaagen era nero, imbevuto di cinismo come un acido. Cordelia avrebbe potuto abbracciarlo per quella battuta. Era stato l’unico a tirar fuori delle spiritosaggini in sua presenza, in quei tre giorni, e lei lo considerava l’individuo più razionale che avesse incontrato dalla sua partenza da Colonia Beta. Era contenta d’essersi affidata a lui.
La fecero girare di fianco e le appoggiarono alla colonna vertebrale un anestizzatore elettronico. Cordelia sentì un fremito, e i suoi piedi freddi sembrarono improvvisamente caldi. Le sue gambe erano diventate inerti come sacchi di lardo.
— Può sentire questo? — chiese il Dr. Ritter.
— Questo cosa?
— Bene. — Lui annuì verso il tecnico, e la rimisero in posizione supina. Il tecnico le mise un telo sulle gambe e le scoprì l’addome, quindi accese il campo sterilizzatore. Il chirurgo cominciò a palparla, con gli occhi fissi sui monitor olovisivi che gli davano la posizione tridimensionale del feto dentro di lei.
— È sicura che non preferirebbe essere addormentata? — le chiese il Dr. Ritter per l’ennesima volta.
— No. Voglio guardare. Questo è il mio primo figlio. — E forse anche l’ultimo.
Lui sorrise, paziente. — Brava ragazza.
Ragazza. Oh, Cristo, sono più vecchia di te. Qualcosa le diceva che il Dr. Ritter preferiva non essere guardato dal paziente. Magari era di quelli che in sala operatoria parlavano dei fatti loro, pettegolezzi sui colleghi, freddure spinte sulle infermiere, e ogni tanto uno spassionato commento casuale sul corpo che avevano sotto i ferri. Lo vide però guardarsi attorno come se ricontrollasse la lista di tutto, persone e oggetti.
— Avanti, Ritter, vecchio posapiano, vediamo di cominciare la partita. Fai le carte — disse Vaagen, tamburellando le dita sul tavolo con impazienza. Il suo tono era un misto di punzecchiante sarcasmo e genuino incoraggiamento. — I miei scanner dicono che le ossa sono già in decalcificazione. Se aspettiamo che quel veleno le rosicchi troppo, non mi resterà niente su cui ricostruire uno scheletro. Incidi adesso; le unghie te le mangerai più tardi.
— Non mi mangio mai le unghie quando ho i guanti — borbottò il chirurgo. — E tu guarda di non darmi di gomito mentre opero, altrimenti dico al tecnico di ammanettarti all’autoclave.
Veri vecchi amici, sospirò Cordelia fra sé. Il chirurgo agitò le dita, raccolse un vibro-bisturi, inspirò una lunga boccata d’aria con gli occhi fissi sull’addome di Cordelia e tagliò, con un gesto dritto e deciso. Il tecnico medico seguì il laser che apriva la carne col cauterizzatore a mano, sigillando i vasi sanguigni nella profonda incisione rettilinea. Nel roseo tessuto muscolare, sotto lo strato di grasso giallastro superficiale, non ci fu quasi perdita di sangue. Lei sentì una pressione, ma nessun dolore. Altri tagli più lenti, semicircolari, le aprirono la parte anteriore dell’utero.
Un trasferimento di placenta era molto più impegnativo di un semplice taglio cesareo. La fragile membrana della placenta doveva essere chimicamente e ormonalmente persuasa a staccarsi dalla rete di vasi sanguigni dell’utero, senza danneggiare troppi dei villi di cui era fittamente coperta, e poi separata dalla parete uterina con un bagno di soluzione nutriente molto ossigenata. La spugna del simulatore doveva quindi esser fatta scivolare fra la placenta e l’interno dell’utero, in modo che i villi cominciassero almeno in parte a interagire con la nuova matrice, prima che l’intera massa fosse sollevata fuori dall’addome vivo della madre e deposta nel simulatore. Più avanzata era la gravidanza, e più difficile risultava il trasferimento.
Il cordone ombelicale fra la placenta e il feto fu monitorato, e Ritter ordinò di iniettare ossigeno extra con un ipospray. Su Colonia Beta sarebbe stato un robot a farlo, lì se ne occupò un tecnico dall’aria ansiosa e accigliata.
Il tecnico cominciò a pomparle nell’utero la chiara soluzione giallastra. Usciva da due tubi, e altri due la riassorbivano fuori, versandola in una vaschetta di raccolta. Altro liquido le traboccava dall’addome, sgocciolando giù sul tavolo e sul pavimento. Le mani guantate del chirurgo, dentro di lei, stavano letteralmente lavorando sott’acqua. Non c’era dubbio: un trasferimento di placenta era una faccenda dura anche in quanto a impegno fisico.