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— Spugna — ordinò a bassa voce Ritter. Vaagen e Henry avvicinarono il simulatore uterino, lo aprirono e tirarono fuori la matrice di spugna dall’interno sterile. Il chirurgo la spinse dentro con l’aiuto di un paio di lunghe pinze curve e per lunghi interminabili minuti lavorò per metterla a posto. Cordelia non poteva vedere le sue mani dietro la curvatura dell’addome, così nudo e rigonfio; sapeva solo che erano dentro di lei. Il respiro le si accelerò per la tensione. Ritter stava sudando.

— Dottore… — Il tecnico indicò qualcosa su un monitor.

Ritter alzò lo sguardo. — Mmh! — borbottò, poi continuò a lavorare a denti stretti, concentrato. Il tecnico avvicinò il tavolo dei ferri e disse qualcosa. Henry e Vaagen dissero anche loro qualcosa, in tono incoraggiante, ma Cordelia non capì le parole… aveva freddo, si sentiva svanire…

Il fluido che traboccava fuori dal suo addome cambiò colore all’improvviso striandosi di rosso, rosso vivo, e la quantità che ne usciva aumentò, molto più rapidamente di quella del liquido che entrava.

— Cauterizza qui! - sibilò Ritter.

Cordelia ebbe una breve visione, al di là di una membrana, di minuscole braccia e gambe, e una testa scura: un corpiciattolo che si muoveva nelle mani guantate del chirurgo, non più grosso di un gattino mezzo affogato. — Vaagen! Fatti avanti e prendilo, ora, se lo vuoi! — esclamò Ritter. Vaagen affondò anch’egli le mani guantate nell’addome colmo di fluido, mentre lenti vortici scuri annebbiavano la vista di Cordelia, e d’un tratto lei avvertì un dolore terribile. Brevi lampi accecanti le esplosero negli occhi; poi una nuvola di tenebra le fu sopra e la avvolse. L’ultima cosa che sentì fu la voce allarmata del chirurgo che sibilava: — Oh, merda…!

I suoi sogni erano impregnati di sofferenza. La cosa peggiore era il soffocamento. Nel sonno si sentiva mancare il respiro e piangeva e lottava per una boccata d’aria. La sua gola era intasata di ostacoli che lei artigliava fino a spaccarsi le dita sui denti. E poi sognava di nuovo le torture di Vorrutyer, moltiplicate ed estese nelle più folli complicazioni per ore e ore. In ginocchio sul suo petto c’era un Bothari dementato che le schiacciava i polmoni come un macigno.

Quando finalmente si svegliò — c’erano stati altri risvegli, ma di quelli non ricordava niente — fu come uscire da un’infernale cella sotterranea per tornare alla luce divina. Il suo sollievo fu così grande che mandò un gemito, con gli occhi pieni di lacrime. Poteva respirare, anche se non senza sforzo. Aveva dolori dappertutto e non riusciva a muoversi, ma poteva respirare. Questo le bastò.

— Sshh, sshh. — Un panno umido massaggiò cautamente le sue palpebre appiccicose di muco. — Va tutto bene.

— Cosh… cosha… — farfugliò. La vista le si schiarì un poco. Era notte, e accanto al letto erano accese un paio di lampade schermate. La faccia di Aral comparve sopra la sua. — È s… sera? Cos’è… successo?

— Sshh. Sei stata male, molto male. Hai avuto una brutta emorragia durante il trasferimento di placenta. Il tuo cuore si è fermato due volte. — Aral si umettò le labbra, poi continuò: — Il trauma dell’operazione, dopo l’avvelenamento da soltossina, ha provocato un collasso polmonare. Ieri hai avuto un’altra ricaduta, ma il peggio è passato. Non muovere la testa; hai i tubi dell’ossigeno nel naso.

— Quanto… tempo?

— Tre giorni.

— Ah. E… il bambino? Aral! Il bambino!

— È andato tutto bene. Vaagen ha detto subito che il trasferimento era riuscito. Hanno perso il trenta per cento della funzionalità placentare, ma Henry ha rimediato con una soluzione ossigenata molto nutritiva e tutto sembra proseguire normalmente, almeno per quanto potevamo aspettarci. Comunque, il bambino è ancora vivo. Vaagen ha già cominciato i suoi trattamenti sperimentali sulla calcificazione, e ha promesso un primo resoconto appena sarà possibile. — Le accarezzò la fronte. — Vaagen ha accesso prioritario a tutte le attrezzature ospedaliere, e potrà avere i tecnici e il materiale di cui ci sarà bisogno, compresa la possibilità di far venire qui chiunque desideri, per un consulto. Ha già ingaggiato un pediatra, mi sembra, oltre allo stesso Henry. E per i gas tossici, Vaagen è il migliore esperto che potremmo trovare, anche fuori Barrayar. Non possiamo fare di più, al momento. Ora riposati, amore.

— Il bambino… dove…

— Ah. Anche da qui puoi vedere dov’è, se vuoi. — La aiutò a girare la testa verso la finestra. — Vedi l’edificio al di là del primo? Quello con le luci rosse sul tetto? È il reparto ricerche chimico-biologiche. Il laboratorio di Vaagen e Henry è al secondo piano.

— Ah, lo riconosco. L’ho già visto, dall’altra parte, quando siamo venuti a prendere Elena.

— Proprio quello. — Il volto di lui si raddolcì. — È bello vederti con gli occhi aperti, mia capitana. Quando stavi male, io… non mi ero mai sentito così vuoto e disperato fin da quando avevo undici anni.

Era stato a quell’epoca che una squadra d’incursori di Yuri il Folle aveva ucciso sua madre e suo fratello. — Sshh… — fu ora lei a mormorare. — No, no… va tutto bene. Sono qui con te.

Il mattino dopo le tolsero i sensori dei monitor e vari tubicini dal corpo, salvo quelli dell’ossigeno. Ci furono poi giorni di quieta routine. La sua ripresa fisica era più tranquilla di quella di Aral. Truppe di uomini capitanati da Vortala o da qualche altro ministro venivano a parlargli a tutte le ore. Nella sua stanza era stata installata una console di terminali anti-intercettazione, malgrado le proteste dei medici che avrebbero voluto vederlo a letto più spesso, e in quell’ufficio improvvisato Koudelka lavorava con lui otto ore al giorno.

Koudelka si mostrava piuttosto silenzioso, come un po’ tutti i membri dello staff dopo l’attentato, anche se non a disagio e umiliato come quelli le cui misure di sicurezza erano fallite. Perfino Illyan evitava lo sguardo di Cordelia.

Aral la faceva camminare su e giù per il corridoio un paio di volte al giorno. Il vibro-bisturi le aveva inciso l’addome in un taglio dritto che si sarebbe rimarginato senza problemi, ma il tessuto muscolare superficiale avrebbe impiegato tempo a guarire. Non le doleva quanto i polmoni, tuttavia, o il cuore. Il suo addome pendeva un poco, flaccido, definitivamente non più abitato. Era sola, era di nuovo soltanto se stessa, dopo cinque mesi di quella strana doppia esistenza.

Un pomeriggio il Dr. Henry arrivò con una sedia antigravità e la portò a visitare il suo laboratorio, nell’altro edificio, per mostrarle com’era stato installato il simulatore uterino. Cordelia guardò i movimenti del bambino su uno schermo e poté leggere i suoi dati e i rapporti tecnici. Gli esami dei nervi, della pelle e degli occhi erano incoraggianti, anche se Henry non si sbilanciò sui possibili danni alla catena degli ossicini dell’orecchio medio. Sia lui che Vaagen erano validi scienziati, quasi betani nella loro metodologia, e lei li benedisse (in silenzio) e li ringraziò (a voce), e quando tornò a letto si sentiva molto più su di morale.

Ma il pomeriggio seguente, quando Vaagen entrò nella sua camera, il cuore di Cordelia ebbe un balzo. L’uomo aveva un’espressione tempestosa, le labbra serrate in una linea bianca, e mandava lampi dagli occhi.

— Cos’è successo, capitano? — gli chiese, allarmata. — Il fosfato di calcio molecolare… non ha funzionato?

— Troppo presto per dirlo. No, il suo bambino sta come ieri, milady. È per suo nonno che sono qui.

— Scusi?

— Il generale Conte Vorkosigan è venuto in laboratorio un paio d’ore fa.

— Oh. Voleva vedere il bambino? Mmh, bene. Non fa che preoccuparsi di quanto le nuove tecnologie cambieranno la vita. Forse comincia finalmente a vedere oltre i suoi blocchi emozionali. La tecnologia bellica non gli è apparsa difficile da accettare, del resto, da vecchio militare qual è…