Piotr sbuffò. Inclinò la testa, affondando duramente il collo fra le spalle ossute, e li fissò entrambi. — Voi siete decisi a gettare questo disonore su di me. Sulla mia casa. Io non posso convincervi, né darvi ordini… benissimo. Ma ci saranno delle conseguenze. Io non permetto che il mio nome sia dato a quell’essere. Questo posso proibirlo, per intanto.
Aral aveva le labbra strette, le nari dilatate. Non s’era mosso dalla sedia, e lo schermo portatile giaceva sulle sue mani acceso, dimenticato. Non si permise un fremito d’emozione a quelle parole. — Va bene, signore.
— Lo chiameremo Miles Naismith Vorkosigan, allora — disse Cordelia, sempre più rattristata da quella rottura. L’addome le doleva per la tensione muscolare. — Mio padre non se la prenderà a male.
— Tuo padre è morto — sbottò Piotr.
Annientato in una fiamma di plasma dieci anni prima, in un incidente nello spazio… a volte Cordelia immaginava, chiudendo gli occhi, di rivedere ancora quel fulmine di luce bianca, come se le fosse rimasto stampato sulla retina. — No, signore. Non finché io vivo e lo ricordo.
Piotr parve colpito allo stomaco da quella frase. Su Barrayar, le cerimonie per i defunti erano pregne di un’arcaica adorazione degli antenati, come se solo la memoria di chi restava tenesse in vita le loro anime. Che la sua stessa mortalità gli scorresse più fredda nelle vene, quel giorno? S’era spinto troppo avanti, e lo sapeva, ma non poteva tornare indietro. — Niente vi può convincere, è così? E sia, allora ascoltate ciò che dico. — Il vecchio si girò di nuovo a guardare Aral. — Lascerai questa casa. E anche Casa Vorkosigan, in città. Prendi con te la tua donna e vattene. Oggi stesso!
Lo sguardo di Aral parve raccogliere in un breve attimo la sua infanzia da quelle mura. Poi spense lo schermo, lo poggiò sul tavolo con cura e si alzò. — Molto bene, signore.
L’ira di Piotr era sfumata di angoscia. — Rinunci alla tua casa? Per una cosa simile arrivi a questo punto?
— La mia casa non è un luogo. È una persona, signore — disse gravemente lui. Poi aggiunse, con riluttanza: — Alcune persone.
E intendeva anche Piotr, oltre a Cordelia. Lei scosse il capo. Era di pietra, il vecchio? Perfino in quel momento Aral gli mostrava una cortesia che le faceva stringere il cuore.
— Restituirai le tue rendite e i titoli azionari ereditari alle casse del distretto — rincarò disperatamente Piotr.
— Sì, signore. Come desideri. — Aral si avviò alla porta.
Piotr si schiarì la gola. — Dove andrai a vivere?
— Da tempo Illyan insiste che mi trasferisca alla Residenza Imperiale, per motivi di sicurezza. Evon Vorhalas mi ha persuaso che ha ragione.
Cordelia s’era alzata insieme a suo marito. Andò alla finestra e lasciò vagare lo sguardo sul panorama verde e bruno. Il vento s’era placato, e al centro del lago stagnavano banchi di nebbia. L’inverno si preannunciava umido e freddo…
— Così, alla fine anche tu metti su arie imperiali — lo accusò Piotr. — Ambizione. È di questo che si tratta, vero?
Aral sogghignò amaramente, irritato. — Al contrario, signore. Se mi resta soltanto la mezza-paga di ammiraglio in congedo, non posso permettermi di affittare una casa.
Lo sguardo di Cordelia fu attratto da un movimento più in alto, fra le nuvole. Un piccolo velivolo antigravità stava scendendo di quota, con una strana curva. — Ma… quell’aereo ha qualcosa che non va — mormorò fra sé, perplessa.
Il velivolo scese ancora, avvicinandosi. Ondeggiava stranamente, e si lasciava dietro una scia di fumo scuro. D’un tratto deviò verso la tenuta. — Dio mio, viene da questa parte… e se fosse pieno di bombe?
— Cosa? — esclamarono all’unisono Piotr e Aral. I due uomini vennero alla finestra accanto a lei, il marito a destra e il suocero a sinistra.
— Ha lo stemma della Sicurezza Imperiale — disse Aral.
Piotr strinse gli occhi. Non aveva più una vista molto buona. — Ne sei certo?
Cordelia pensò che avrebbero potuto fuggire lungo il corridoio e uscire dalla terrazza posteriore. Oltre la strada c’era una buca, e forse, sdraiandosi là dentro… ma l’aereo stava rallentando, era danneggiato, e pochi istanti dopo fu chiaro che cercava di compiere un atterraggio verticale sul prato di fronte alla casa. Uomini in livrea marrone e con l’uniforme verde e nera della Sicurezza corsero fuori con le armi spianate, e mentre il piccolo velivolo toccava l’erba con un tonfo sordo lo accerchiarono cautamente. Il danno era più visibile, adesso: sulla carlinga c’era uno squarcio prodotto da un’arma a plasma, il cui raggio aveva bruciato la vernice fino ai timoni di coda, semidistrutti. Era incredibile che il pilota fosse riuscito a far manovra in quelle condizioni.
— Ma chi… — mormorò Aral.
Quando una figura si mosse dietro il parabrezza danneggiato, Piotr mandò un’esclamazione. — Sangue del demonio, è Negri!
— Dietro di lui c’è qualcuno… andiamo! — Aral corse alla porta. Cordelia e Piotr lo seguirono fuori dall’ingresso principale e lungo il prato, un po’ camminando e un po’ correndo.
Le guardie dovettero usare una vanga per sbloccare lo sportello della carlinga. Negri cadde fra le loro braccia. Lo portarono qualche metro più in là e lo deposero sull’erba. L’uomo aveva una bruciatura lunga un metro su tutto il lato sinistro del corpo, dalla coscia alla spalla. Metà dell’uniforme gli era bruciata addosso, e sotto i lembi di tessuto annerito si vedeva la carne nuda, rossa e sanguinante, ustionata in profondità. Era ancora lucido, scosso da tremiti incontrollabili.
L’altro passeggero, assicurato dalla cintura di sicurezza al sedile posteriore, era l’Imperatore Gregor. Il bambinetto stava piangendo di spavento, ma quasi in silenzio, ingoiando penosi sorsi d’aria mentre sopprimeva i singhiozzi. Una tale volontà di controllarsi, in un bambino di cinque anni, sembrò sinistra a Cordelia. Perché non gridava? Lei l’avrebbe fatto, sentiva il bisogno di farlo. Gregor indossava roba da poco prezzo, pantaloncini azzurri e un maglione con un gattino ricamato sul petto. Gli mancava una scarpa. Un uomo della Sicurezza gli slacciò la cintura e lo tirò fuori dalla carlinga. Il bambino parve non accorgersi neppure d’esser stato deposto al suolo; guardava Negri steso poco più in là, e i suoi occhi erano confusi, inespressivi, inorriditi.
Koudelka e Droushnakovi uscirono da due diverse porte dell’edificio e li raggiunsero in fretta. Appena Gregor vide la ragazza bionda partì di corsa verso di lei, dritto come una freccia, e le si aggrappò addosso. — Drou, aiuto! — gemette, come se solo allora osasse far sentire la sua voce. Lei lo prese in braccio e lo strinse a sé.
Aral s’era inginocchiato accanto al Capo della Sicurezza. — Negri, cos’è successo?
L’uomo alzò la mano non ustionata e gli afferrò il colletto della giacca. — Ha fatto un colpo di stato… alla capitale. Le sue truppe hanno preso il Quartier Generale della Sicurezza, le stazioni televisive, la centrale telefonica. Perché non rispondevate? Abbiamo… combattuto alla Residenza Imperiale. La Sicurezza… infiltrata. Traditori e spie. Stavamo… per arrestarlo e lui ha agito in preda al panico. Ha colpito troppo presto… credo che abbia Kareen…
— Lui chi? — domandò Piotr. — Negri, chi è stato?
— Vordarian.
Aral annuì cupamente. — Sì.
— Portate via… il bambino — ansimò Negri. — Ci inseguono… fra poco saranno qui. — Per qualche momento socchiuse gli occhi, col respiro rotto da sibili rauchi. D’un tratto il suo sguardo tornò ad accendersi di una luce febbrile. — Dite a Ezar che io… — Una serie di brividi violenti come convulsioni lo scossero. Poi si fermarono. Tutto di lui si fermò. Anche il respiro.
CAPITOLO UNDICESIMO