— Lui! Lui ha detto che tu…
— Io non ho mai sentito parlare di questa persona — disse Cathay alzando la voce. — A giudicare da quello che mi stai facendo passare, lui ti ha dato il mio nome prendendolo dalle liste dell’Associazione Insegnanti, solo per liberarsi di te. Penso che anch’io potrei fare qualcosa di simile, ma francamente non credo di avere il diritto di assoggettare un altro insegnante al genere di abuso che vorresti da me. — Tacque, e per una volta anche lei non disse nulla.
— D’accordo — disse lui alla fine. — Sono davvero spiacente che l’uomo con cui avevi stipulato un contratto per l’educazione di tuo figlio se ne sia andato su Plutone. Da quello che mi dici, la sua decisione era perfettamente legale, anche se discutibile dal punto di vista etico. — Fece una smorfia al pensiero di un insegnante che se la svignava davanti ad un obbligo morale. — Tutto quello che posso dire è che tu avresti dovuto studiare attentamente il contratto, e avresti dovuto stipularne uno di attesa tre anni fa… oh, al diavolo, a che serve? Non ti aiuta. Hai tutta la mia comprensione, spero che tu creda almeno questo.
— Allora aiutami — sussurrò lei, e l’ultima parola si trasformò in un singhiozzo. Cominciò a piangere piano. Le spalle sussultavano e le lacrime scorrevano sulle guance, ma lei non distolse mai lo sguardo da Cathay.
— Non c’è nulla che io possa fare.
— Devi fare qualcosa.
— Ancora una volta: ho i miei obblighi. Tra un mese avrò adempiuto al mio contratto con la madre di Argus — fece un cenno verso di me, — e regredirò di nuovo a sette anni. Non capisci? Ho già un contratto intermedio. La bambina avrà sette anni tra pochi mesi. Ho stipulato il contratto per la sua educazione quattro anni fa. Non posso sottrarmi in alcun modo, legalmente o moralmente.
Il viso di lei si stava di nuovo riempiendo di odio.
— Perché no? — gracchiò. — Perché diavolo no? Lui si è sottratto al mio contratto. Perché io dovrei essere l’unica a soffrire? Perché io, eh? Ascoltami, brutto figlio di puttana. Tu sei tutto quello che mi resta. Dopo di te c’è solo l’educatore pubblico. Oppure dovrò allevarlo da sola, senza una guida. Vuoi essere responsabile di questo? Che razza di vita sarà costretto ad affrontare all’inizio?
Andò avanti così per altri dieci minuti, con frasi sempre più illogiche e ingiuriose. Io oscillavo tra un sentimento di vaga simpatia (era davvero in un tremendo pasticcio, anche se per questo doveva prendersela solo con se stessa) ed uno di aperta ostilità. In quel momento mi spaventava. Non potevo guardare quegli occhi torturati senza farmi piccolo per la paura. Il mio sguardo si posò sul suo ventre gonfio e sull’occhio di vetro dell’uteroscopio infilato nell’ombelico. Non avevo bisogno di guardare attraverso di esso per sapere che era già oltre il termine. Si era fatta ritardare il parto mentre cercava di procurarsi un insegnante. Non che fosse una cosa molto sensata: l’educazione di un bambino non comincia prima dei sei mesi. Ma il fatto dava la misura della sua disperazione e della illogicità dei suoi ragionamenti a causa della pressione psicologica.
Cathay rimase immobile e continuò ad ascoltarla finché lei non scoppio di nuovo in lacrime. A quel punto cominciai a vederla in modo diverso, forse un po’ come la vedeva Cathay. Ero dispiaciuto per lei, ma le sue lacrime non mi commuovevano. Vidi che avrebbe potuto distruggerci tutti se non avessimo opposto resistenza. Per dirla tutta, era lei a dover pagare per la propria negligenza. Stava facendo tutto il possibile per trovare qualcuno che si accollasse il suo errore, ma Cathay non aveva intenzione di cedere.
— Io non voglio farlo, — disse Cathy. Guardò verso di noi. — Trigger?
Trigger fece un passo avanti ed incrociò le braccia sul petto.
— Okay — disse. — Ascolta. Non ho capito il tuo nome e non voglio neppure saperlo. Ma chiunque tu sia, sei sulla mia proprietà, in casa mia. Ti ordino di andartene e di non farti vedere mai più.
— Io non me ne andrò — disse lei testarda abbassando lo sguardo a terra. — Non me ne andrò finché lui non promette di aiutarmi.
— In questo caso non esiterò a chiamare la polizia — le ricordò Trigger.
— Io non me ne andrò.
Trigger guardò Cathay e scrollò le spalle senza sapere cosa fare. Penso che entrambi si fossero ormai resi conto che questa esperienza di vita stava diventando un po’ troppo cruda.
Cathay rifletté un momento, guardando fisso la donna negli occhi. Poi si chinò e raccolse una manciata di fango. La soppesò in mano e poi la scagliò verso la donna. La colpì alla spalla sinistra con un tonfo umido e il fango colò giù.
— Vattene — disse, — vattene di qui.
— Io non me ne vado — disse lei.
Lui le lanciò un’altra manciata di fango, colpendola in pieno volto. Lei boccheggiò e sputò.
— Vattene — disse lui raccogliendo dell’altro fango. Questa volta la colpì ad una gamba, ma a quel punto era stato imitato anche da Trigger e la donna venne colpita ripetutamente.
Senza rendermi conto esattamente di ciò che stava accadendo, raccolsi del fango da terra e lo lanciai. E anche Denver. Respiravo affannosamente e non sapevo perché.
Quando finalmente lei si voltò e fuggì, mi accorsi che avevo i muscoli della mascella duri come l’acciaio. Mi ci volle parecchio per rilassarli e quando ci riuscii, i denti mi dolevano.
Ci sono due strutture a Beatnik Bayou. Una è una vecchia e cadente stazione di servizio con tavola calda chiamata la Capanna di Zucchero, completa di una pompa di benzina arrugginita sul davanti e di una logora scritta sulla vetrina. Da un lato dell’edificio c’è un furgoncino Dodge grigio posato su blocchi di cemento, accanto ad un mucchio di rottami di automobili arrugginiti e ricoperti di erbacce. Il camioncino non ha ruote. Di fianco c’è una Toyota berlina senza finestrini né motore. Una strada malconcia corre davanti alla capanna in direzione del molo. Dall’altro lato la strada curva intorno ad un cipresso ricoperto di muschio…
… e finisce contro un muro. È un po’ una scossa. Ma per quanto dodici acri siano parecchi per un parco dei divertimenti privato, non è abbastanza grande per suscitare l’illusione di essere davvero là. Là, in questo caso, dovrebbe essere la Louisiana del 1951. Trigger è affascinata dal ventesimo secolo, che per lei va dal 1903 al 1987.
Ma nella maggior parte dei casi l’illusione funziona. Raramente si vedono i muri, perché ci sono di mezzo gli alberi. Comunque io mi immergo nell’atmosfera del luogo non tanto con gli occhi, quanto con il naso, le orecchie e la pelle. Come l’odore del legno marcio, il rumore delle rane che saltano nell’acqua, o il debole ronzio del compressore della distilleria, il luccichio d’argento dei pesciolini quando li raccolgo dai contenitori metallici sul retro della capanna, la sensazione del legno riscaldato dai raggi del sole quando mi siedo sul molo a pescare.
Ci vuole un sacco di energia per far funzionare il sole, per cui abbiamo parecchi giorni di nebbia e notti assai lunghe, anche questo contribuisce a creare l’illusione. Sfido chiunque ad andare a spasso di notte per il Bayou con i grilli che cantano e le rane che gracidano senza pensare di essere tornato sulla Vecchia Terra. A parte la gravità della Luna, naturalmente.
Trigger ha ereditato del denaro. Ma anche così, e con lo stipendio da insegnante, il bayou è un luogo costoso da mantenere. Prima era un ambiente più convenzionale, ma lei scoprì presto che le paludi richiedevano una minore manutenzione, e comunque le piace quell’atmosfera indolente. Ha aperto la tavola calda, ha comperato da alcuni artisti le false automobili e ha fatto in modo che l’Ufficio Turistico Lunare lo inserisse nell’elenco delle ricostruzioni storiche. Morirebbero se sapessero la verità sulla Toyota, ma non sarò certo io a spifferarla.