«Lei è…»
Lei sorrise e tese la mano. «Becky. Voglio dire, Rebecca. Joni e io dividiamo l'appartamento.»
Jack le strinse la mano. «Possiamo entrare?»
«Io, cioè, noi…» La ragazza parve imbarazzata. «Be'… no. Non credo. Mi spiace.»
«Vogliamo farvi alcune domande su una persona che la signorina Marsh conosce.»
Rebecca si scostò la frangia dagli occhi verdi e fissò la strada alle loro spalle, quasi si aspettasse che vi fossero appostati dei cecchini. «È un po'… imbarazzante.» Aveva una voce molto dolce, impostata, piacevole da ascoltare, una voce che, con un sussurro, poteva ridurti al silenzio. «Non possiamo parlare qui fuori?»
«Il fumo non c'interessa», mormorò Jack.
«Come?»
«Ho sentito l'odore.»
«Oh.» Lei si guardò i piedi, a disagio.
«Non siamo qui per quello. Ha la mia parola.»
«Hmm.» Si morse il labbro inferiore con una fila di denti bianchissimi e, voltandosi, aggiunse: «Va bene, va bene. Entrate».
La seguirono nei meandri freschi della casa, superando una mountain bike posata contro la ringhiera. Paul rimase quasi folgorato dai capelli ondeggianti e dalle lunghe gambe abbronzate che salivano le scale davanti a lui.
Giunti nell'appartamento, la ragazza fece loro strada in un piccolo corridoio. In una camera posta sulla destra, Jack intravide un paio di pantaloncini da ginnastica di cotone abbandonati in una chiazza di luce prima che Rebecca chiudesse la porta e li conducesse in una stanza più ampia.
«Il mio studio», spiegò.
La luce filtrava da due finestre a ghigliottina, formando due rettangoli gemelli di colore bianco sulle assi grezze del pavimento. Alle pareti erano appesi cinque grandi acquerelli dai colori brillanti, vivaci. Al centro del locale, una ragazza con una maglia scollata color lime e pantaloni neri a zampa d'elefante stava frettolosamente spruzzando un deodorante, diffondendolo dappertutto e facendo tintinnare i braccialetti. Quando li sentì, lasciò il deodorante, afferrò un pacchetto sigillato da un pezzo di pellicola trasparente dal tavolino e si voltò nella loro direzione, le mani dietro la schiena come una bambina colta in flagrante. Aveva i capelli biondi, tinti, il viso di una bambola di porcellana, due occhi azzurri ridicolmente grandi e un naso schiacciato. Jack capì che era fatta.
«Joni?» chiese, estraendo il distintivo. «Joni Marsh?»
«Hmm… sì», rispose lei, scrutando il distintivo. «Chi siete?»
«Polizia.»
I suoi occhi si spalancarono. «Polizia? Becky, che caz…»
«È tutto a posto. Non sono qui per la roba.»
«Davvero?» Joni era dubbiosa, inquieta, spostava il peso del corpo da un piede all'altro.
«Sì», ribadì Jack.
Allora Joni si passò i capelli dietro le orecchie e lo esaminò – gli occhi chiari sospettosi, la bocca chiusa – soffermandosi sulle maniche della camicia, sui capelli scuri spettinati, sull'addome robusto. All'improvviso scoppiò sonoramente a ridere. «Ma no, dai!» E, portandosi una mano alla bocca, esclamò: «Piedipiatti veri? Sul serio?»
«Mi ascolti, Joni», replicò Jack, infilando il distintivo nella tasca della camicia. «Vuole buttar via quella roba, così possiamo procedere?»
Lei sbatté le palpebre, guardando senza capire prima lui, poi Rebecca, poi ancora lui. Il trucco della donna gli ricordava le foto delle autopsie: ombretto color blu mare intenso e labbra dipinte come l'arco di Cupido. «Ma davvero siete piedipiatti?»
«Joni…» ripeté lui. «La roba. Vuole buttarla via, da qualche parte?»
«Joni.» Rebecca la prese per un braccio. «Vieni qui.» La condusse in cucina, e i due uomini la udirono parlare con voce bassa e paziente. Attraverso una fessura della porta, Jack notò un grande tavolo di quercia, varie stampe di Matisse alle pareti e un freezer da bar in una nicchia. Poi udì i passi di Joni sulle scale, una porta che sbatteva, altri passi che si avvicinavano e ancora le due donne parlare in cucina: ridacchiavano e armeggiavano intorno al frigorifero.
Jack infilò le mani in tasca e prese a gironzolare per la stanza, osservando gli schizzi sui cavalietti. Molti erano nudi a carboncino: si scorgevano un braccio qui, una testa là. Uno – un grande acquerello – raffigurava una donna girata di tre quarti rispetto all'artista, intenta a sfilarsi una calza dal polpaccio.
«Ehi.» Paul stava studiando un quadro incompleto, sistemato su un cavalietto. «Jack, guarda qui.»
Una donna, davanti a una tenda ornata di nappe, teneva le braccia sollevate con deliberata noncuranza. Gli spettatori, il suo pubblico – tre uomini in tutto -, erano stati rappresentati con tratti ampi e schematici sullo sfondo, a carboncino.
«Sapevo che l'avreste notato», commentò Joni dalla soglia. «Sono io.»
I due si voltarono.
«È una spogliarellista, sapete.» Rebecca stava alle spalle dell'amica, tenendo un secchiello per il ghiaccio pieno di birre.
«Lo sappiamo», rispose Essex.
«Già.» Joni spostò il peso su un fianco e mise le mani in tasca. «Lo immaginavo.»
Rebecca si avvicinò alle loro spalle.
«L'ha ritratta lei?» domandò Jack. «Nello studio?»
«No, no. L'ho iniziato al pub. Stavo solo dando gli ultimi ritocchi.»
«Lavora molto con le ragazze? Ne conosce molte?»
«Non sono mostri, sa?» osservò lei, sorridendogli con la testa inclinata di lato, come se lui volesse farla ridere. «Anch'io l'ho fatto per un po'. Mi ha permesso d'iscrivermi alla scuola d'arte. Alla Goldsmiths.»
«Forse dovremmo… hmm…» Jack si guardò intorno. «Senta, perché non ci sediamo e parliamo?»
«Ah.» Rebecca posò il secchiello e si asciugò le mani. Il contenitore le aveva lasciato una vaga macchia scura sullo scamiciato di velluto. «Be', non si preannuncia niente di buono.»
«Nieeeente», miagolò Joni.
«Infatti.»
«Be', se è una faccenda seria, io ho bisogno di bere», annunciò Rebecca, estraendo le birre dal secchiello. Porgendone una a Essex, esclamò: «Posso tentarla con l'alcol e poi spiattellare la storia ai giornali?»
L'altro non esitò. «Certamente, grazie.»
Poi ne porse una a Jack – che la prese senza dire una parola -, si avvicinò alla finestra e si sedette sul davanzale, le gambe nude piegate, la bottiglia di birra stretta fra le caviglie sottili. Essex rimase vicino alla porta della cucina, spostando di tanto in tanto il peso da un piede all'altro, giocherellando col tappo della birra e lanciando occhiate furtive al seno di Joni.
«Bene», disse Jack, schiarendosi la gola e restando al centro della stanza. «Veniamo al sodo.»
Le informò rapidamente, illustrando i fatti in modo chiaro, essenziale: le cinque donne stese sui tavoli dell'obitorio a pochi isolati di distanza, la connessione coi pub. Quando finì, Joni scosse il capo, incredula. Non ridacchiava più. Il divertimento era svanito. «Oh, cielo. È tremendo.»
Rebecca rimase seduta a fissarlo, lo sgomento dipinto negli occhi chiari, da gatta.
«Volete restare un po' da sole?»
«No, no», rispose Becky e si rannicchiò ulteriormente, abbracciandosi, le braccia tremanti, le ginocchia vicine al mento. «No, vada avanti.»
Caffery ed Essex aspettarono pazientemente che le due donne riuscissero a controllare lo shock. Poi Becky e Joni parlarono per quasi un'ora, dapprima con incredulità – «Me lo ripeta ancora: ha detto Shellene, Michelle e Petra?» -, poi dimostrando un'assoluta volontà di collaborare, riferendo i fatti nudi e crudi, diventando loro stesse due segugi. Emerse quasi subito che il Dog and Bell era il fulcro intorno cui ruotava il giro locale della droga e della prostituzione. A quanto pareva, tutto ciò che accadeva a East Greenwich era verosimilmente correlato con quel piccolo e malridotto pub di Trafalgar Road. Lì Rebecca e Joni avevano incontrato Petra Spacek, Shellene Craw e Michelle Wilcox. Ritenevano anche di conoscere la vittima numero quattro.