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«Capelli molto decolorati, di un biondo quasi bianco?» chiese Joni sollevando una ciocca dei suoi. Ormai era sobria, lucida. «Come i miei? E un tatuaggio di Bugs Bunny qui?»

«Già.»

«È Kayleigh.»

«Kayleigh?»

«Sì, Kayleigh Hatch. È una, sa…» E mimo l'atto d'iniettarsi droga nell'incavo del gomito. «Una vera tossica.»

«Indirizzo?»

«Non lo so. Vive con la madre, credo. A West London.»

Jack annotò il nome. Si era seduto, con la schiena appoggiata al muro, su una piccola panca di legno vicino al cavalietto. Quando Rebecca aveva preso altre birre dalla cucina, aveva portato con sé anche una sedia e si era sistemata a meno di mezzo metro da lui: china in avanti, le braccia snelle leggermente incrociate sviile ginocchia. Era innocente, eppure Jack trovava irritante la sua presenza.

Guardò Joni. «Un'altra cosa.»

«Sì?»

«Lei ha lavorato con Shellene Craw la scorsa settimana.»

«Hmm… Sì.»

«Ci pensi bene: quel giorno se n'è andata con qualcuno? Qualcuno è venuto a prenderla?»

«Hmm…» Joni si umettò le labbra e si fissò le unghie color arancio che sporgevano dai sandali coi tacchi di sughero.

«Mi sente?»

«Sì, sto pensando», rispose lei e sollevò lo sguardo. «Becky?»

Rebecca si strinse nelle spalle, ma lui colse il fugace sguardo che Joni le aveva lanciato. Fu questione di un secondo, il tempo dello scoppio di una bolla di sapone, tanto che Jack ebbe l'impressione di esserselo immaginato.

«No», rispose Rebecca. «Non è uscita con nessuno.»

«Lei si trovava là?»

«Stavo dipingendo», spiegò, indicando gli schizzi sul tavolo da disegno.

«D'accordo. Vorrei…» Ma si bloccò. Abbassando la guardia per un istante, aveva notato che Rebecca aveva la pelle d'oca sulle gambe. Quell'improvvisa, fugace, ma intensa consapevolezza della sua pelle lo aveva distratto, e lei se ne accorse. Girando lo sguardo sul punto verso cui Jack guardava, capì e lo guardò negli occhi.

«Sì?» disse lentamente. «Che vuole ancora da noi? Cos'altro possiamo fare?»

Jack si sistemò la cravatta, pensando: Dio mio, è una testimone… «Ho bisogno di qualcuno che identifichi Petra Spacek», disse poi.

«Io non posso», ribatté Joni schiettamente. «Vomiterei.»

«Rebecca?» Il desiderio di Jack era tangibile. «Lei lo farà?»

Dopo un attimo la ragazza chiuse la bocca e annuì, in silenzio.

«Grazie.» Jack finì la birra e aggiunse: «È assolutamente certa di non aver visto Shellene lasciare il locale insieme con qualcuno?»

«No. Se così fosse, ve lo diremmo.»

Ritornarono all'auto. Paul sembrava esausto.

«Stai bene?» chiese Jack.

«Sì», gracchiò l'altro, afferrandosi il petto e sorridendo. «Passerà, passerà. Pensi siano lesbiche?»

«Ti piacerebbe l'idea, eh?»

«No, sul serio, che ne pensi?»

«Hanno camere separate.»Jack guardò il collega diritto negli occhi: era sul punto di scoppiare a ridere. «Non sono vere, sai.»

Paul si fermò, con la mano appoggiata alla portiera. «Di che parli?»

«Di Joni. Delle sue tette. Sono siliconate. Non sono vere.»

L'altro posò i gomiti sul tetto dell'auto e lo fissò. «E che cosa ti rende tanto esperto?»

Lui sorrise. «L'esperienza? Trent'anni di evoluzione delle forme su Men Only? Riesco a capirlo. Tu no?»

«No.» Paul era rimasto a bocca aperta. «No. Visto che me lo chiedi, non saprei dirlo.» Salì sbuffando in macchina e si allacciò la cintura. Ma avevano percorso solo un breve tratto quando si rivolse nuovamente a Jack. «Ne sei certo?»

«Certo che ne sono certo.»

Paul sospirò profondamente e guardò fuori del finestrino. «Dove andremo a finire?»

Era ancora chiaro quando Jack arrivò a casa e trovò Veronica sulla sdraio della veranda. Era cupa e silenziosa, intenta a osservare le ombre che si allungavano in giardino. Portava un cardigan di mohair color albicocca sulle spalle e, accanto alla sedia, c'era una bottiglia mezza vuota di moscato.

«'Sera», disse lui quasi sottovoce. Voleva chiederle che cosa facesse ancora lì, in quella casa, ma, dalla posizione rigida della sua testa, capì che sarebbe finita in lite. La oltrepassò e si diresse in fondo al giardino, appoggiando le mani sul recinto di filo, voltandole le spalle.

Oltre la trincea della ferrovia, un sottile pennacchio di fumo si levava nel cielo rosato. Jack premette il viso contro il recinto. Penderecki.

Talvolta, la sera, lo osservava mentre si trovava in giardino, mentre girovagava, fumava e si grattava distrattamente tra le natiche come un gorilla pronto ad andare a dormire. Il giardino era poco più di un pezzo di terra grigia tra la casa e la trincea della ferrovia, disseminato di vecchi motori, con un frigorifero e l'assale di un vecchio rimorchio. Un tempo, i terreni al di là della trincea appartenevano a un mattonificio, e i giardinieri delle villette a schiera degli anni '50 ritrovavano ancora molti mattoni quando zappavano.

Un suolo duro da scavare. Jack non pensava che Ewan fosse sepolto lì.

Penderecki gli voltava le spalle. Indossava la sua solita maglia color marrone nicotina e teneva una mano sul rastrello; accanto a lui, il malandato inceneritore vomitava fumo nell'aria. Diciassette anni prima, aveva scoperto che Jack aveva l'abitudine di raccogliere oggetti, di frugare nella sua immondizia, di prendere tutto ciò che potesse fornirgli indizi su Ewan. E quel gesto era diventato un rito: bruciava la spazzatura e, per assicurarsi che Jack lo sapesse, lo faceva in piena vista, nel giardino sul retro.

Mentre Jack osservava, Penderecki si schiarì la gola e sputò per terra. Poi rimase perfettamente immobile, una mano sul coperchio dell'inceneritore. Aveva reagito con grande perspicacia e accortezza alla presenza di Jack. L'atteggiamento scaltro, i fianchi femminei, i capelli grigi untuosi pettinati all'indietro, che lasciavano intravedere il cuoio capelluto rosa intenso… Jack sentiva l'antica rabbia riattizzarsi. Era come se Penderecki riuscisse a farlo imbestialire a distanza, nonostante il centinaio di metri che li separava.

L'uomo si voltò lentamente verso di lui e gli sorrise.

Jack sentì il sangue affluirgli al viso. Si staccò dal recinto, infuriato per essere stato sorpreso, e tornò a grandi passi verso casa.

Dalla veranda, Veronica lo osservava.

«Che c'è?» domandò lui, fermandosi. «Che cosa guardi?»

Per tutta risposta, lei espirò rumorosamente attraverso il naso e socchiuse gli occhi.

«Che cosa c'è? Che cosa?»

Veronica emise un profondo sospiro.

Jack aprì le mani. «Come?»

E poi ricordò. Gli esami.

«Oh.» Scosse il capo, placandosi. «Scusami. Mi senti?»

«Sì.»

«E allora?»

«Oh, purtroppo è tornato. L'Hodgkin è tornato.» Socchiuse gli occhi e contrasse il viso, ma non versò una lacrima.

Lui rimase immobile a fissarla. Ecco che cos'era.

«Ha chiamato il dottor Cavendish. Il fatto è che devo ricominciare con la chemio.» Coprendosi meglio le spalle col cardigan, aggiunse: «Senti, non ne faremo un caso di Stato, d'accordo?»

Jack abbassò la testa, fissando con sguardo assente il pavimento della veranda. «Mi dispiace.»

«Non devi sentirti dispiaciuto.» Veronica gli si avvicinò e gli diede una pacca affettuosa sulla mano. «Non è colpa tua.»

«Annulleremo il party», mormorò lui.

«No! No, non voglio farmi compatire. Non l'annulleremo.»

9

Quando la riunione del mattino iniziò, Jack Caffery aveva già parlato con la Virgo, l'agenzia di East London che rappresentava la ventiduenne Kayleigh Hatch, spogliarellista, prostituta saltuaria e tossicodipendente a tempo pieno. Ricordavano il tatuaggio di Bugs Bunny. A Jack venne detto che l'ultimo numero fatto da Kayleigh era stato al Dog and Bell e chiese d'inviargli subito una foto della ragazza.