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«Siete molto diverse.»

«Perché lei appartiene a un ceto sociale inferiore, questo intende?»

«No. Io…» Si fermò. Forse intendeva proprio quello. «Be', sembra molto più giovane di lei.»

«Ci amiamo. Non è chiaro?»

Jack sorrise, scuotendo il capo. «Non lo creda.»

«Ma era quello che voleva sentirsi dire, no? È la prima cosa che la maggioranza degli uomini vuole sapere: se scopiamo.»

«Sì», annuì lui. «Sono un uomo e quella è la prima cosa che mi sono chiesto. In realtà pensavo ad altro: lei ha la pittura, ha uno scopo, Joni sta solo…»

«Andando alla deriva?»

«Sì.»

«E in più si droga…»

«Non credo che lei lo faccia.»

«Se ne ho voglia, sì», rispose con un sorriso. «Sono un'artista, signor Caffery, e perciò dissoluta. Inoltre Joni troverà ben presto il suo scopo. Anch'io ho impiegato molto per farlo.»

«Ha intenzione di starle vicino e aspettare?»

Lei rifletté per qualche istante, la testa piegata di lato. «Be', sì», rispose lentamente, gettandosi indietro i capelli. «Suppongo di doverglielo…» Poi fece una pausa, pensando a come esprimersi. «Sembra stupido, se ci si riflette, sembra una ragione stupida per stare vicino a qualcuno, ma Joni…» Rebecca incrociò lo sguardo di Jack e s'interruppe, sorridendo. «No. Le sto rendendo le cose troppo facili.»

«Su, andiamo.»

«Gliel'ho appena detto, le sto rendendo le cose troppo facili.» Si fermò di fronte all'ingresso e si voltò verso di lui. «A ogni modo, ora lei mi deve dire qualcosa.»

«Cosa?»

«Eiuscirò a dimenticare quello che vedrò oggi?»

«Ognuno reagisce diversamente.»

«E lei?»

«Lo vuole sapere?»

«Per questo gliel'ho domandato.»

Jack lanciò un'occhiata al di là delle porte di vetro fumé, nell'ingresso dotato di aria condizionata. «Credo che finire qui, ammazzati, sia meglio che scomparire per sempre. Avrebbero potuto non essere mai rintracciate.»

Rebecca lo guardò a lungo, con aria meditabonda, la bocca immobile, perfettamente rettilinea, finché Jack non poté più sopportare di essere studiato.

«Può bastare», esclamò e, aprendole la porta, aggiunse: «Entriamo?»

Nel comparto, la tenda purpurea si mosse, rivelando la presenza di un patologo che lavorava sul corpo della Spacek. Rebecca stava in piedi con la testa voltata, le dita che sfioravano il vetro.

«C'è odore di ospedale», commentò. «Lei avrà odore?»

«Non si dovrà avvicinare tanto.»

«Bene», disse Rebecca. «Sono pronta.»

La tenda elettrica prese lentamente a scostarsi. Petra Spacek aveva gli occhi e la bocca chiusi. I punti che Krishnamurthi aveva praticato nella zona in cui aveva rimosso e poi ricucito il cuoio capelluto erano coperti da un telo di satin color porpora. Il corpo era stato preparato per il riconoscimento: piccoli batuffoli di cotone erano stati infilati sotto le palpebre per ricostruire i bulbi oculari appiattiti, ma Jack si accorse troppo tardi di quanto contuso e deformato fosse il volto della donna. Lo scempio dell'esame autoptico gli aveva fatto dimenticare il deterioramento subito dai mesi di sepoltura. E provò un forte disagio. «Rebecca, senta, forse è stata una cattiva idea…»

Ma lei si era voltata. Studiò il viso di Petra per meno di cinque secondi, poi dalla gola giunse un suono. Si girò dall'altra parte.

«Sta bene?»

«Sì», rispose Rebecca, rivolta al muro.

«Non avrei dovuto portarla qui. Non è riconoscibile.»

«Lo è, invece.»

«Crede che sìa lei?»

«Sì… Voglio dire… Forse. Non lo so, mi dia un attimo.»

«Si prenda tutto il tempo che vuole.»

Lei inspirò profondamente e raddrizzò le spalle. «Va bene», mormorò. Con una mano, raccolse i capelli sul collo e con l'altra si coprì la bocca. Lentamente, si voltò verso il cadavere. Fece scorrere lo sguardo sul viso della donna, questa volta con calma, imponendosi di non guardare altrove. «Che cosa sono quei segni sulla fronte?» chiese d'un tratto.

«Non lo sappiamo.»

Lasciò ricadere i capelli e si voltò verso di lui. Voleva sembrare distaccata, ma Jack capì che lo faceva per non dover guardare ancora la morta. «Credo che sia lei.» Parlò in un sussurro, gettando rapidi sguardi di lato, come se temesse che Petra la udisse.

«Lo crede?»

«No, sono sicura che sia lei.»

«Il viso è molto deformato.»

Rebecca chiuse gli occhi e scosse il capo. «In ogni caso era magra. Si possono sempre esaminare le… ossa.» Aprì lentamente gli occhi e lo guardò. Per la prima volta, Jack si accorse che stava tremando. «Possiamo andare, ora?»

«Venga», esclamò lui e, prendendola per un braccio, si rese improvvisamente conto di quanto fosse gelida la sua pelle. «Ci occuperemo delle carte nell'atrio.»

Le portò un po' d'acqua in un bicchiere di carta. «Grazie», mormorò Rebecca.

«Vorrei che firmasse questo», disse Jack, sedendosi accanto a lei. Aperta la valigetta, cercò i moduli.

Rebecca gli toccò il polso con la mano fredda e indicò la Samsonite. «Che cosa sono quelle?»

Le fotografie del cadavere di Petra erano ben visibili nella busta di plastica trasparente. Jack chiuse la valigetta. «Mi spiace che le abbia viste.»

«Era così quando l'avete portata qui? Quello era il suo aspetto?»

«Non dovevo fargliele vedere neanche per sba…»

«Cristo», esclamò lei, schiacciando il bicchiere di carta. Poi sospirò. «In fondo, non è peggio degli incubi che ho avuto da quando avete bussato alla mia porta.»

«Cerchiamo di non perdere tempo.»

«Se è un modo per scusarsi, lo accetto.»

Lui posò la valigetta sulle ginocchia e vi sparpagliò sopra i moduli. Tolse il cappuccio della penna coi denti e segnò alcune crocette. «Dovrebbe firmare qui e qui. Questo ci confermerà che ha visto il corpo e che…» S'interruppe. Qualcuno si era rumorosamente schiarito la gola: un chiaro invito a tacere.

Entrambi sollevarono lo sguardo.

Il sergente Essex stava all'ingresso e teneva la porta aperta. Con una mano tesa invitò due donne vestite quasi nello stesso modo – jeans e ampie giacche di pelle – a entrare. Le due avanzarono mestamente e si accomodarono là dove Essex aveva indicato.

«Vado a verificare che tutto sia pronto», spiegò il detective, sfiorando la mano della donna più anziana. «Chieda a sua sorella se ha bisogno di qualcosa, d'accordo?»

La donna annuì, con sguardo vitreo, e si premette un fazzolettino sulla bocca. Il suo volto era spento, inespressivo. I jeans che portava erano aderenti, e sulle caviglie si scorgevano i lievi segni di sfregamento dei sandali.

Rebecca guardò quelle due donne e capì, senza sapere come, che erano le parenti di un'altra vittima. Jack rimase in silenzio. Lui sapeva di più. Sapeva i dettagli. Sapeva che erano la madre e la zia di Kayleigh Hatch.

La zia aveva lo sguardo assente. Poi si agitò sulla sedia e sospirò. Quindi posò una mano sulle spalle dell'altra donna, facendo scricchiolare la pelle morbida della giacca. «Potrebbe non essere lei. Questo devi ripeterti, Dor.»

«Ma potrebbe anche esserlo, non ti pare?» Poi, spostando lo sguardo sulla finestra, chiese: «Credi che si possa fumare, qui dentro?»

Le porte di vetro si aprirono e un agente della squadra F entrò nell'atrio fresco con un mezzo sorriso sul volto, seguito dal detective Diamond che, ridendo, si tolse gli occhiali da sole. Diamond lanciò un'occhiata a Rebecca e, mentre si avviava col collega verso lo studio del coroner, il suo riso si tramutò in lieve sogghigno. Quando i due uomini svoltarono l'angolo, le risate continuarono.

«E che dici di questa, eh?» chiese Diamond. «Ascolta! Qual è la differenza fra una puttana e una cipolla?»

«Va' avanti. Qual è?»

«Dai, una puttana e una cipolla!»

«Sì, qual è? Ci rinuncio.»

«D'accordo.» Diamond tacque per un istante e, dallo scricchiolio delle scarpe di pelle sul linoleum, Jack capì che si era fermato, probabilmente per girarsi verso l'altro detective. «Che la puttana puoi affettarla senza piangere.»