Nell'ufficio di Caffery e Maddox le veneziane erano sollevate e il sole pomeridiano, che filtrava attraverso la finestra polverosa, pareva aver cotto gli oggetti che si trovavano sul tavolo.
Jack sentì l'odore della plastica calda del telefono mentre apriva la finestra, abbassava la veneziana e si appoggiava sul gomito per recuperare il numero di Penderecki dall'agenda elettronica. Lasciò squillare il telefono, osservando le lancette dell'orologio che giravano. Sapeva che l'uomo non avrebbe risposto.
L'anno prima aveva provato a chiamarlo a metà pomeriggio. Conosceva così bene i suoi movimenti che era rimasto perplesso quando lui non aveva risposto. Aveva lasciato squillare il telefono ed era rimasto a guardare fuori della porta finestra, chiedendosi se fosse successo l'imponderabile, se Penderecki giacesse steso sul pavimento di casa, morto.
E invece la sua figura massiccia era apparsa sulla porta posteriore, un paio di bretelle sopra una maglia sporca. Gli alberi erano pieni di foglie, ma Jack era riuscito ugualmente a scorgerne la faccia e il braccio bianchiccio che tracciava un arco tra il verde.
Gli ci volle solo un istante per capire che Penderecki gli stava facendo un cenno, i pollici rivolti verso l'alto, sogghignando con la bocca sdentata. Gli stava dicendo che sapeva chi lo stava chiamando.
Da quel giorno, che gli telefonasse dall'ufficio o da casa, Penderecki lasciava squillare l'apparecchio. Nelle rare occasioni in cui rispondeva, lo faceva con un: «Ciao, Jack» secco, privo di qualsiasi intonazione. Jack supponeva che avesse comprato un lettore telefonico digitale. Pertanto l'unico piacere era sapere che quegli squilli gli avrebbero invaso la casa finché lui l'avesse voluto. Un piccolo piacere infantile, Jack. Forse Veronica ha ragione sul tuo conto. Talvolta lo chiamava anche più volte al giorno.
Lasciò suonare il telefono per dieci minuti, poi riagganciò e andò nell'archivio per vedere se era arrivato il fax dal St. Dunstan's.
15
Lucilla era mezza italiana e mezza tedesca, la presenza più vulcanica di casa Harteveld. Ossa robuste e colorito olivastro, alta e larga come un armadio, non poteva essere in nessun modo dissuasa dal cantare alle feste, appoggiata allo Steinway, mentre il mascara le colava sul volto per la commozione suscitata dalla musica. Dietro l'altezzosa maschera di bel ragazzino inglese, Toby Harteveld trovava impossibile che quella donna, coi suoi capelli neri lucidi e i suoi attacchi di gelosia, fosse davvero sua madre. E ben presto aveva imparato a odiarla.
Era l'estate tra le medie e l'ingresso alla Sherborne School. Un giorno Toby era entrato in un bagno – la porta non era chiusa a chiave – e aveva trovato la madre nuda, una gamba sul cassettone, intenta a radersi i folti peli neri che, dal pube, arrivavano fino all'interno coscia.
Lei aveva sorriso e, porgendogli il rasoio, gli aveva detto: «Ciao, cucciolo. Tieni… Aiutami».
«No, mamma», era stata la pacata risposta di Toby. Come se avesse sempre saputo che sarebbe accaduto.
«No?» Lei era scoppiata a ridere. «No, mamma?» Poi, abbassando la testa, aveva chiesto: «Non sarai mica un piccolo finocchio, eh? Dimmi… Sei una piccola checca? Hmm?»
«No, mamma.»
«Dirò a tuo padre che hai cercato di toccarmi.»
«No, mamma.»
«'No, mamma'? Pensi che non lo farò?» L'aveva scrutato coi suoi occhi neri lucenti, la testa inclinata di lato, come se stesse decidendo quale parte divorare per prima, poi, con un movimento impaziente della chioma scura, aveva spalancato la finestra, protendendosi verso lo spiazzo di ghiaia sottostante, il seno morbido al di là del bordo. «Henrick! Henrick! Per favore, vieni! È per tuo figlio.»
Toby aveva colto l'opportunità di sgattaiolare via. Si era precipitato lungo le scale, ignorando quelle grida sdegnate, lasciandosi alle spalle candelabri tintinnanti e domestici stupefatti. Aveva corso lungo corridoi rivestiti di legno, fino nel parco. Aveva poi trovato un olmo sulla sponda del lago e si era raggomitolato accanto a esso, rimanendo nascosto lì fino a sera.
Quand'era tornato, la casa appariva tranquilla, come se non fosse successo nulla di particolare. Il padre, le labbra sottili un po' più esangui del solito, aveva fatto servire zuppa di aragosta per cena. Dell'episodio non si era parlato più.
Nei mesi seguenti, Toby si era chiuso in se stesso. Aveva chiesto e ottenuto una serratura per la sua camera; nel pomeriggio, se ne stava disteso con le mani pallide giunte sull'addome, ad ascoltare le esplosioni passionali di Lucilla. La semplice consapevolezza dell'esistenza di quella donna bastava a serrargli lo stomaco; talvolta immaginava addirittura che la madre avesse astutamente sottratto le sue federe dalla lavanderia per sfregarsele addosso, per impregnarle dei suoi umori. Gli sembrava di percepirne l'odore ovunque andasse. Aveva imparato a dormire a faccia all'ingiù, il ventre premuto sul materasso, in caso lei avesse trovato il modo di entrare in camera sua. Non si addormentava mai finché non era sicuro, assolutamente sicuro, che la madre si trovava a letto, nell'altra ala della casa.
Due anni più tardi, dopo la sua prima battuta di caccia, Toby aveva conosciuto Sophie, la figlia dell'avvocato della zona. L'incontro aveva avuto luogo nella biblioteca di famiglia. Alta, magra e fredda come il marmo, la ragazza stava in piedi, bianca contro i pannelli scuri. L'esatto opposto di Lucilla. Toby, quattordicenne, le aveva porto un bicchiere di champagne, scoprendo, con sorpresa ed eccitazione, che le dita della giovane erano più fredde del gambo del bicchiere stesso.
Lucilla aveva percepito all'istante l'intesa tra i due e si era decisa a scegliere quell'estate per il rito di passaggio. Aveva mandato padre e figlio all'estero e i due erano finiti nel Sud-Est asiatico, a Luzon, per la precisione. Armato di tutte le sue convinzioni su come educare il giovane figlio, Henrick aveva portato Toby in un bordello di Makati, dove gli erano state offerte quindici ragazze adagiate scompostamente sui loro salung-puwet, dietro un pannello di vetro che dal pavimento arrivava fino al soffitto.
La scelta di Toby era caduta sulla più magra e pallida. A letto, le aveva ordinato di non parlare, di non muoversi, di non dimenarsi e di non gemere. Il mattino dopo, mentre sul balcone sorseggiava un caffè e mangiava sinangag fritti, era stato travolto dalla sensazione che qualcosa di anomalo stava nascendo in lui.
Un mese dopo, la madre lo aveva scoperto, insieme con Sophie, fra i tassi potati ad arte: lui coi pantaloni alla cavallerizza calati fino alle ginocchia, lei a occhi chiusi, il volto lungo tranquillo, immobile come per una radiografia. Toby si era rivestito ed era rientrato a casa, ma Lucilla aveva già scatenato un pandemonio. I domestici si agitavano nel sole, e Toby aveva evitato per un soffio di essere preso sotto dalla Land-Rover di Henrick, il quale, cupo in volto, aveva fatto retromarcia nel cortile anteriore, sollevando una nube di ghiaia, per poi imboccare il viale d'accesso e andarsene.
Il messaggio era chiaro: Toby avrebbe dovuto affrontare Lucilla da solo.
Osservato dai domestici, il ragazzo aveva salito le scale, posando poi la mano bianca sul pesante portone di quercia, gli occhi semichiusi, come se aspettasse di sentire i lievi tremolii che gli avrebbero indicato l'esatta posizione della madre, in attesa.
Lucilla, nella sala da pranzo per gli ospiti, camminava su e giù lungo la parete degli arazzi di Anversa, respirando rumorosamente. La luce azzurra della finestra illuminava le scie delle lacrime sulle sue guance. Era la prima volta, dall'episodio del bagno, che i due si ritrovavano da soli.
«Mamma.»
«Siediti.»
Lui si era seduto a capotavola, al posto del padre. Alla sua sinistra la finestra azzurra si apriva sulle distese verdi, caliginose, dei prati e sugli ombrosi cipressi, ma la sala da pranzo sembrava buia, come se vi si fossero concentrati anni e anni di tensione. Lucilla si era lasciata cadere sulla sua sedia di mogano; aveva chiuso gli occhi, posando le mani sul collo caldo e scuotendo il capo. «Quella creatura anemica… Suo padre è un dannato pederasta, lei è un errore della natura.»