«Una parrucca?»
«Sì. I capelli biondi che Krishnamurthi ha prelevato dalle vittime…»
«Allora?»
«La Amedure dichiara: 'I capelli sono tinti, di origine asiatica, nessuno di essi presenta la radice ed entrambe le estremità sono state rozzamente recise. Non strappate, né lacerate. Capelli simili vengono usati per le parrucche'.»
«Si tratta di capelli lunghi», osservò Jack. «Di una parrucca da donna.»
Paul sollevò le sopracciglia. «Michael Caine.»
«Che cosa?»
«Vestito per uccidere: l'hai visto?»
«Paul…» Jack sospirò.
«Va bene, va bene», rispose l'altro, sollevando una mano. «Continuo a dimenticarmelo: in questa coppia io sono il buffone e tu l'idiota privo di humour.»
«E ne vado fiero.»
«Sì, ma sei triste.» Paul tornò al rapporto, mordicchiandosi l'interno della guancia. «E senza amici, non scordartelo.» Tacque per un istante, poi riprese: «Oh, guarda, il test della precipitina».
«Test della precipitina? A che serve? A controllare che il sangue sia umano?»
«Sì, per distinguerlo da quello animale.»
«Stai parlando degli uccellini?»
«Certo.» Paul scorse il foglio, continuando a mordicchiarsi l'interno della guancia. «Dice che i tessuti nei sacchi aerei degli uccelli sono umani.»
«Come?» esclamò Jack, sollevando lo sguardo.
«Hai capito bene. Sono umani.»
«Sai che significa?»
«No.»
«Be', come pensi siano finiti nei polmoni?»
«Li hanno inalati?»
«Sì, e ciò significa che…»
«Che… oh…» Paul, all'improvviso, comprese. «Oh, merda, sì.» Si sedette sul tavolo della Kryotos, ogni traccia d'allegria scomparsa dal volto. «Intendi dire che gli uccellini erano ancora vivi? Che sono morti lì dentro?»
Jack annuì. «Sorpreso?»
«Be', un po'. Sì.»
Rimasero in silenzio per alcuni istanti, meditando su quel fatto. L'aria nella stanza pareva mutata, come se la temperatura fosse scesa di uno o due gradi. Jack si alzò, finì la birra e indicò il rapporto. «Va' avanti.»
«Sì, giusto», disse Paul, schiarendosi la gola e prendendo i fogli. «Bene, che cosa vuoi sapere?»
«Come le ha sedate?»
«Hmm…» Fece scorrere il dito sulla stampata. «L'esame ematologico rivela… uh… oh…»
«Che cosa?»
«Rivela che non l'ha fatto.»
«È impossibile.»
«Questo è ciò che dicono qui. Nulla, se non un po' d'alcol e di cocaina, ma non tanta da creare danno, niente fenolo, niente benzodiazepine, niente barbiturici se non per la Wilcox e la giovane Kayleigh. Hmm…» I suoi occhi si muovevano veloci sui fogli. «No, nulla. Fatta eccezione, forse, per l'anonima signora numero uno, quella piena fino al collo di eroina. Ma l'eroina è sempre strana: la tolleranza varia da soggetto a soggetto…»
«Deve aver usato qualcosa.»
«No, Jack, non lo ha fatto. Nei corpi delle donne c'era un po' di tutto, ma niente sarebbe stato in grado d'indurre quell'effetto.»
«Ne sei certo?»
«Certo che ne sono certo. Lo dichiara Jane Amedure. È senza dubbio così.»
Jack era esasperato. «Allora come le ha tenute ferme per inserire nel loro collo un ago grosso e sporco?»
«Non sono maghi, sai», replicò Paul in tono grave, sollevando lo sguardo dal rapporto. «Questi tizi che ci portano via i nostri cari non sono molto capaci. Anzi, riconsiderando la maggior parte dei casi, mi accorgo di quanto siano incapaci.»
«Incapaci?» gli fece eco Jack, fissandosi con occhi assenti l'unghia nera del pollice. Si chiese quanto incapace fosse Birdman. Quanto incapace fosse Penderecki. Quanto incapaci bisognava essere.
«È stato fortunato», affermò Paul.
«No, Birdman non è fortunato. Lui sa», replicò Jack, alzandosi e avvicinandosi alle foto. «Non è così?» domandò, rivolgendosi alle donne morte che, dalla parete, guardavano nel vuoto. «Allora? Come ha fatto?»
«Jack…» lo chiamò Paul alle sue spalle. «Guarda qui.»
Le donne ricambiarono lo sguardo di Jack: Petra, braccia sottili, sorriso smagliante e calzamaglia, la povera, ottusa Michelle Wilcox che stringeva una ragazza dalla chioma ribelle…
«Jack…»
La grande Shellene tutta denti. Kayleigh, col suo vestito rosa della festa e il bicchiere sollevato verso la macchina fotografica. «E se là dentro c'è la mia bambina, la mia piccola, la mia piccola, piccola bambina? E se è lei?» «Come ha fatto?»
«Jack!»
«Che c'è?» domandò, voltandosi. «Che cosa?»
«L'esame entomologico», rispose Paul scuotendo il capo. «Ora so perché sembra che non le abbia violentate. Disgustoso bastardo.»
«Perché?»
«Sai che abbiamo per le mani, Jack?»
«No, che cosa?»
«Abbiamo un necrofilo, un vero necrofilo.» Batté un dito sul rapporto e lo porse a Jack. «È scritto tutto qui, nero su bianco.»
17
Inizio degli anni '80 all'UMDS. Anatomia macroscopica 1.1. Turno B in laboratorio.
Una classe di dieci studenti, sparpagliata tra le sagome stese su lettini a rotelle di acciaio inossidabile e ricoperte dai teli verdi, l'odore acre della formaldeide nelle narici. Il diciannovenne Harteveld sapeva che nella sua vita stava per accadere qualcosa di decisivo.
Era in coppia con una giovane studentessa, assegnato al corpo di una donna di mezza età. Per tutto l'anno, quel cadavere sarebbe stato riposto, la notte, in un apposito contenitore di acciaio, per essere poi recuperato di giorno e ricoperto col suo telo verde, in modo che le dita tremanti del ragazzo potessero sezionare, pasticciare e risistemare i suoi organi.
Aveva lineamenti spigolosi, due sacche gialle al posto dei seni, i peli pubici radi e le ossa delle anche affilate come rasoi, che sporgevano dalla pelle incartapecorita. I capelli biondo scuro erano pettinati all'indietro.
«Doris è sveglia e pronta?» domandò allegramente la studentessa ai tecnici, entrando in laboratorio e infilandosi i guanti.
«Ha dormito più del solito stamattina… Guardala, non sono riuscito a strapparle neanche una parola.» E, tirandola fuori, aggiunsero: «Ehi, Doris, svegliati! È ora di lavorare».
E l'avrebbero portata a Harteveld, che se ne stava lì, tutto tremante e muto, senza partecipare allo scherzo, sudando all'idea di quell'immobilità fredda che lo aspettava sotto il telo verde. Talvolta, accanto al corpo supino, tremava al punto che il bisturi gli sfuggiva di mano.
«Non hai abbastanza stomaco per farlo», mormorava la sua compagna, dandogli una gomitata durante la lezione di anatomia topografica peritoneale e gastrointestinale. «Hai capito, non hai… Oh, lasciamo perdere!»
Toby aveva messo da parte il denaro che gli passavano i suoi e si era comprato un appartamento a Lewisham, un appartamento al pianterreno con un giardino quadrato, chiuso sul davanti da un muro di mattoni. Dopo le lezioni, si stendeva in camera, le tende tirate, e fantasticava tanto spesso sul cadavere che gli pareva di essersi fuso il cervello. Nella sua mente, la donna assumeva le fattezze di una dea: cerea, il viso bianco e immobile, serena e distaccata, una musa marmorea, i capelli biondi sparpagliati sul cuscino per lui… Aspettava, nell'immobilità infinita. Erano l'immobilità e il pallore che lo attraevano, così diversi dalla formosità e dal fervore di Lucilla.