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Veronica lo fissò. «Stavo solo cercando di aiutarti…»

«Ti ho chiesto di non entrare qui dentro.» E, voltandosi, aggiunse: «Te lo ripeto ancora una volta: non entrare qui dentro. E non frugare nell'archivio».

Lei si accigliò e spinse in avanti le labbra. «Scusami. Ecco, lascia che rimetta tutto a posto…»

«No», rispose lui, spingendola via. «Lascia… stare…»

Veronica trasalì, e lui si bloccò.

Stai gridando, Jack. Non gridare con lei. «Senti… Mi spiace… davvero, Veronica…»

Ma era troppo tardi. Il volto di lei si stava già alterando, la fronte si era corrugata e la bocca tremava. Si alzò, con gli occhi pieni di lacrime.

«Oddio…» Jack chiuse gli occhi e si sforzò di avvicinarsi a lei, di toccarle le spalle tremanti. «Veronica, mi spiace, mi spiace… È stata una brutta giornata.»

«È per il cancro, vero? Vuoi lasciarmi perché ho il cancro?»

«È ovvio che non voglio lasciarti. Non me ne vado.» La attirò a sé e posò il mento sulla sua testa. «Senti, ho accumulato turni su turni. Se vuoi, posso prendermi un po' di ferie… Venire alla chemio con te.»

«Ti sei preso qualche giorno di ferie?» Veronica smise di tirare su col naso e lo guardò.

«Voglio stare con te.»

«Davvero?»

«Sì, davvero. Ora vieni, siediti.» Le premette la mano sulla spalla e si sedettero insieme sul pavimento, la schiena appoggiata alla parete. «Non ne voglio più sentire parlare, d'accordo?» esclamò e, intrecciando le dita con quelle di lei, aggiunse: «Non ho paura dell'Hodgkin».

«Mi spiace, Jack.» Lei si pulì gli occhi col dorso della mano. «Mi spiace che sia accaduto a me. Vorrei poter cambiare le cose, sul serio.»

«Non è colpa tua», rispose lui, nascondendo il viso tra i suoi capelli. «Ora, non dimenticare…» Prima di proseguire si schiarì la gola. «Non dimenticare che siamo in due.»

«Va bene.»

Sedettero in silenzio a osservare le falene, marroni come funghi, che rimbalzavano silenziosamente contro la finestra, nella notte scura. Jack portò la sua mano alla bocca, la baciò delicatamente e la girò, per osservare il palmo. «Stai bene?»

«Sì», mormorò lei.

Poi le baciò i capelli e le guardò la mano, con un mezzo sorriso. «Com'è che stavolta non hai fatto il test della colorazione?»

«Come?»

«Ma sì, il test di cui mi hai parlato. Quello che hai fatto la volta scorsa.»

«L'ho fatto», rispose lei con aria assente.

Jack tenne la sua mano accanto al viso. La pelle era pallida, vagamente maculata, simile a quella di un pesce. Ma non c'erano tracce di cateteri, né di linee sottocutanee infilate nella carne, in profondità. «Pensavo che la colorazione si vedesse, dopo.»

«Non del tutto. Svanisce abbastanza presto.» Veronica si passò una ciocca di capelli dietro le orecchie e lo guardò. I suoi occhi erano cerchiati dal mascara. «Jack?»

«Hmm?»

«Forse dovrei andarci da sola. Vorrei dimostrare al dottor Cavendish che non ho bisogno di qualcuno che mi tenga per mano.»

«Ne sei sicura?»

«Sì, davvero.»

«Va bene, va bene.» Jack le sistemò la gonna e studiò la superficie curva del suo ginocchio. Non aveva mai visto Veronica piangere e, stranamente, quel fatto lo aveva eccitato. «Puoi bere, allora?» domandò mentre faceva scivolare la mano lungo l'interno delle sue cosce. «C'è del Gordons in frigo, se ne hai voglia.»

19

Nel 1984 Lucilla Harteveld – età cinquantaquattro anni, peso centoquindici chili – fu ricoverata al King Edward VII Hospital di New Cavendish Street, per dolori toracici. Nell'unità di terapia coronarica l'elettrocardiogramma rivelò un lieve infarto miocardico. Lucilla venne imbottita di farmaci. Henrick Harteveld contattò immediatamente il figlio.

Dopo un cauto riavvicinamento di madre e figlio – dal letto di ospedale di Lucilla proveniva un certo odore, come se lei avesse fatto qualcosa di nascosto sotto le coperte e godesse per il disagio che i visitatori provavano nel sentirlo -, Toby e Henrick si avviarono con aria grave verso Mayfair, per cenare all'Oxford and Cambridge Club. Lasciati soli, senza il controllo di Lucilla, per la prima volta in molti anni i due uomini parlarono a lungo, fino a mezzanotte. Henrick, che si aspettava di perdere la moglie, sedeva eretto sulla sedia e ordinò un Perrier-Jouët. Toby confessò di aver abbandonato la facoltà di medicina e di trascorrere le giornate a oziare nel suo appartamentino nella zona sudorientale di Londra.

Il giorno seguente, Henrick agì.

Senza consultare Lucilla, fece quotare in Borsa la sua ditta farmaceutica – la Harteveld Chemicals – e, pur mantenendo la maggioranza, assegnò un milione e mezzo di sterline di utili al figlio. Aveva scavalcato Lucilla, il che lo faceva tremare: solo, nella libreria rivestita di legno, tremava letteralmente di paura e di eccitazione, chiedendosi come la moglie avrebbe preso quel gesto. Per conferire all'evento un alone di rispettabilità, nominò Toby vice direttore del marketing, un incarico del tutto formale, giacché il ragazzo doveva semplicemente indossare un bel vestito e farsi vedere ogni due o tre giorni nel quartier generale della ditta, tutto cromature e vetri fumé, poco fuori Sevenoaks.

E così Toby Harteveld divenne molto ricco.

Abbandonò il minuscolo appartamento a Lewisham – coi suoi anziani vicini e i gatti sonnolenti accucciati sui muretti – e comprò la casa a Croom's Hill, assumendo architetti di giardini e arredatori, addetti alle pulizie e giardinieri. Facendo leva sul nome degli Harteveld nel campo farmaceutico, si fece eleggere membro del comitato direttivo privato del St. Dunstan's Hospital Trust. Organizzava ricevimenti, riempiendo la villa di personaggi altolocati: cardiochirurghi ed ereditiere, armatori e attrici, donne che sapevano come indossare la seta grezza e uomini che sapevano chiamare il sommelier con uno sguardo. Le conversazioni vertevano sugli affari futuri, sul teatro sperimentale, sulle regate per dinghy a Kennebunkport. Toby cercò di dare forma e senso alla sua vita e, per un breve periodo, riuscì a mantenere l'illusione della sanità mentale.

Tuttavia, mentre lottava per raggiungere la perfezione esteriore, mentre la sua vita si tingeva di successo, la disperazione e l'alienazione aumentavano. Il suo male segreto cresceva.

Nessuno dei suoi conoscenti sapeva delle ragazze che pagava, dell'abitudine di abbordarle per strada e di portarle a Croom's Hill, di mandarle nude nel parco e di obbligarle a rimanerci finché non diventavano blu per il freddo e non rientravano, tremanti e gelate, per finire nel suo letto matrimoniale. Né sapevano che chiedeva loro di restare immobili, senza reagire, con gli occhi rovesciati all'indietro.

«Non posso, mi viene mal di testa.»

«Sta' zitta! Sta' zitta e basta, e non muoverti.»

Mentre le montava, capace di raggiungere l'orgasmo solo con gli occhi ben chiusi, lavorava di fantasia.

Un giorno, mentre era seduto nel suo ufficio climatizzato e coi doppi vetri a Sevenoaks, con un aperitivo accanto, intento a osservare le oche canadesi planare sugli stagni artificiali, considerò all'improvviso il suo fardello in una nuova prospettiva. Forse, pensò, era incurabile. Quell'idea lo paralizzò. Era possibile, si chiese, che ogni essere umano fosse condannato a dare una particolare dimostrazione di volontà, ad accettare con dignità e coraggio un determinato compito? Era possibile che proprio lì, nella sua ossessione, avesse trovato la sfida della sua vita?

Inspirò profondamente e raddrizzò la schiena. Molto bene. L'avrebbe accettata. Avrebbe convissuto per sempre con le limitazioni e i compromessi.

Ma sentiva la necessità di un aiuto. Fece scorrere un dito sul bicchiere alto e lattiginoso di pastis. Aveva bisogno di mettere a tacere la consapevolezza e, per fare ciò, doveva trovare qualcosa di meglio dell'alcol.

Due settimane dopo, trovò la valvola di sfogo che cercava. La scoprì una sera, mentre cenava con un ex compagno di Sherborne, che aveva effettuato una ricerca nelle foreste pluviali di Tanjung Puting per conseguire il dottorato. Dopo cena, l'amico prese una piccola valigetta Gladstone e la posò sulla tavola davanti a Harteveld.