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«Niente è mai niente.»

«D'accordo…» Becky parlava con circospezione, quasi si aspettasse di essere derisa. «Mi sono ricordata di un particolare che riguarda Petra.»

«Quale?»

«A volte, quando mi addormento… Ha presente quando si sta per sprofondare nel sonno e ritornano tutti i sogni della notte precedente?»

«Sì.» Jack lo conosceva fin troppo bene. Era il momento in cui spesso incontrava Ewan e Penderecki.

«Sono certa che non è importante, ma la notte scorsa, quando ormai ero mezza addormentata, mi è venuta in mente Petra che mi diceva di essere allergica al trucco. Non lo usava mai. Lo può vedere dai miei quadri. Era sempre pallida.» Il sole sbucò dalla coltre di nubi e proiettò l'ombra netta delle sue palpebre sulle iridi color verde oro. «In quella foto, nella sua valigetta, lei sembrava… una bambola. Avevo già visto gente morta, e aveva un'aria molto più reale di lei.»

«Mi spiace che l'abbia vista.»

«Non si preoccupi.»

«Rebecca?»

«Sì?» La ragazza chinò il capo e lo guardò. Una goccia di pioggia cadde dall'albero sulla sua guancia. «Che cosa c'è?»

«Perché non mi ha detto di Gemini?»

«Che gli è successo?»

«Quel giorno è uscito con Shellene. Perché non me l'ha detto?»

La giovane incrociò le braccia sotto i piccoli seni e si guardò la punta dei piedi. «Perché crede che non gliel'abbia detto?»

«Non ne ho idea.»

«Non faccia l'ingenuo. Lui spaccia droga, la vende a Joni, ecco perché.»

«Oh.» Jack scosse il capo, deluso. «Lei sa, Rebecca, sa quant'è grave la situazione, vero?»

«Certo che lo so. Non capisce che non penso ad altro?» E, mordendosi il labbro, aggiunse: «Gemini non c'entra assolutamente».

«Già, già», borbottò lui, sfregandosi la fronte. «Sono convinto che lei abbia ragione. Ma il problema è che sono l'unico a pensarlo. Tutti quelli che contano sono persuasi che Gemini sia il bersaglio giusto. Lui è nei guai, Rebecca, in guai maledettamente seri.»

«Non è stato lui. Non so come possiate pensare…»

«Io non lo penso! Gliel'ho appena detto: sono convinto che non sia stato lui.»

«Be'…» Lei voltò la bici nella direzione opposta, improvvisamente calma. «Non c'è bisogno di prendersela.»

«Rebecca… ascolti…» incominciò Jack, ma poi s'interruppe, sentendosi improvvisamente stupido. «Mi spiace. Io… ho solo bisogno di un po' d'aiuto. Ho bisogno di qualcuno che sia franco con me, che una volta tanto mi si lasci in pace.»

«Oh, per amor del cielo», mormorò lei. «Abbiamo tutti bisogno di essere lasciati in pace. E lei è pagato per risolvere i problemi.»

«Rebecca…»

Ma lei non lo ascoltava più. Pedalando rapidamente, se ne andò, mentre la felpa le scivolava su una spalla abbronzata, e Jack, infuriato e confuso, rimaneva a fissare il punto in cui la città aveva inghiottito quella ragazza.

21

Non essendo riuscita a perdere i quaranta chili indicati dai medici, nel 1985 Lucilla ebbe un secondo infarto miocardico, che causò una serie di aritmie incontrollabili e che, nell'arco di mezz'ora, le risultò fatale. Dopo il funerale, Henrick tornò a Greenwich con Toby e i due andarono a passeggiare nel parco.

Henrick si fermò all'ombra della Figura in piedi di Henry Moore. Si voltò verso il figlio e iniziò pacatamente a raccontargli, col suo marcato accento del Gelderland, la storia che aveva tenuto per sé per tanto tempo. Lei – Lucilla – era un'infermiera e lui l'aveva vista per l'ultima volta il 20 settembre 1944, a Ginkel Heath. Qualche tempo dopo gli avevano detto che era morta nel caos della battaglia di Arnhem, insieme coi membri della South Stafford Brigade che stava assistendo. E lui aveva continuato a credere a quella storia fino a trentacinque anni prima, quando lei era ricomparsa: era rimasta da poco vedova di un ricco chirurgo belga e si era stabilita a Sulawesi, dove lavorava in un orfanotrofio.

Toby guardava oltre il padre mentre questi parlava, verso la valle, dove i colonnati rosa pallido della residenza della regina brillavano come l'interno di una conchiglia. A poco a poco si fece strada nella sua mente l'idea che, per tutta la durata del suo matrimonio, il padre non aveva fatto che contare il tempo. Un mese dopo quella conversazione, Henrick vendette la proprietà nel Surrey, diede altri due milioni di sterline al figlio e si trasferì in Indonesia.

Col padre all'estero e la nuova scorta di denaro, Toby uscì sempre più dai binari della normalità: si recava di rado agli uffici di Sevenoaks (le uniche occasioni in cui indossava un vestito erano ormai le riunioni del comitato al St. Dunstan's), non si radeva quasi più e si vestiva sempre come se fosse permanentemente in vacanza: abiti di lino, camicie costose con le maniche arrotolate, espadrillas o scarpe di vitello, portate senza calzini. L'oppio e, in seguito, la cocaina e l'eroina gli avevano reso un buon servizio: avevano imbrigliato i suoi istinti peggiori, l'avevano frenato e placato, senza procurargli, almeno in apparenza, nessun danno fisico. Toby stava attento a non tenere grandi quantità di droga a Croom's Hill, e usava l'appartamentino isolato di Lewisham come base sicura. In effetti, nessuno dei suoi contatti conosceva l'indirizzo dell'appartamento, e lui poteva recarsi lì e rifornirsi un po' alla volta.

Per più di dieci anni mantenne un precario controllo della sua vita.

Verso la fine degli anni '90, tuttavia, le feste avevano assunto un'atmosfera diversa, nuova, disinvolta. Insieme coi bicchieri ghiacciati di Cristal e Stolichnaya, veniva servita cocaina dentro ciotole giapponesi ornate di disegni stilizzati. Le ragazze conosciute nei club di Mayfair stavano appoggiate alle pareti, fumando Saint Moritz e sistemandosi di tanto in tanto le minigonne. Harteveld, inoltre, faceva i suoi acquisti più vicino a casa, ricorrendo a una rete di contatti discreti che lo conducevano ai fornitori. Alcuni dei suoi conoscenti continuarono a frequentarlo, ma vennero ben presto schiacciati dai nuovi ospiti: le ragazze e il loro codazzo.

«Tutto questo è pazzesco, non credi?» disse una di loro a Harteveld che, dopo essersi appena fatto una dose di eroina, si stava accasciando sulla sedia in noce della biblioteca.

«Scusa?» chiese lui, sollevando lo sguardo annebbiato. «Non ho capito.»

«Ho detto che tutto questo è pazzesco, non ti pare?» ripeté lei. Era una ragazza alta, sui venticinque anni, ossa minute, capelli castani ondeggianti e gambe lunghe e flessuose. Pareva stranamente fuori posto col trucco quasi inesistente, il vestito di lana grigia e le scarpe basse.

Ma è veramente una di quelle? Lo è davvero?

«Sì», riuscì a rispondere lui. «Sì, presumo di sì, presumo di sì.»

«Non ho mai visto niente di simile. Il tizio che la dà la inietta anche, a chi vuole. Basta andare in bagno… ed eccolo là: la distribuisce come se fossero caramelle. Te la inietta pure, se hai paura a farlo da solo.»

Harteveld la fissò, incredulo. «Sai chi sono?»

«No, dovrei saperlo?»

«Sono Toby Harteveld. Questa è casa mia.»

«Ah», replicò lei, sorridendo, senza scomporsi. «Allora Toby sei tu! Be', Toby, sono lieta di conoscerti, finalmente. Hai una bella casa. E quel Patrick Heron sul pianerottolo… È autentico?»

«Certo.»

«È splendido.»

«Grazie. Ora…» Con uno sforzo, lui si alzò dalla sedia e le porse una mano tremante. «Per quanto riguarda l'eroina, immagino che l'invito a prenderla insieme non verrebbe rifiutato, eh?»

«Be'», rispose lei, scuotendo il capo e sorridendo. «Grazie, ma non vado d'accordo con la droga. Finirei per vomitare o per fare altre cose patetiche.»

«Molto bene. Una schnapps, allora? Nell'aranciera. C'è un quadro di… Fammi ricordare… Ah, sì, di Frida Kahlo. Credo ti possa interessare.»