Выбрать главу

«Un quadro di Frida Kahlo? Stai scherzando, vero? Ma è ovvio che m'interessa.»

L'aranciera, situata dietro la casa, era gelida. Archi di luce color mango provenienti dalla festa illuminavano gli alberi nei vasi, gettando ombre grigie sul pavimento di pietra. L'ambiente odorava di frutti e di terra fredda, e le voci degli ospiti erano smorzate. Harteveld si grattò le braccia, mentre i suoi pensieri vagavano. Perché si trovavano lì? Che cosa voleva?

Il blu vivo delle sue vene, Toby, congelate e in rilievo. I suoi capelli bagnati e pettinati indietro, lontani dalla fronte.

La ragazza si voltò e lo guardò. «Allora?»

«Scusa?»

«Il quadro? Dov'è?»

«Il quadro», le fece eco lui.

«Sì, quello di Frida Kahlo.»

«Oh, quello…» Harteveld si grattò lo stomaco, osservando il dolce viso della ragazza. «No, mi sono sbagliato. Non è qui. È nello studio.»

«Oh, santo cielo», replicò la ragazza e si voltò, ma lui l'afferrò per un braccio.

«Senti, c'è una cosa che dovresti fare per me. Di solito…» Nella sua testa c'era un turbine. «… di solito sono duecento, ma a te ne darò trecento.»

Lei gli lanciò un'occhiata incredula. «Non sono mica quel genere di donna, sai? Sono venuta alla festa con la mia compagna d'appartamento, e questo è tutto.»

«Dai!» esclamò lui, improvvisamente allarmato dal rifiuto. «Quattrocento, facciamo quattrocento. Non sono difficile: devi soltanto rimanere immobile. Nient'altro. Non…»

«Ti ho detto che non sono del giro.»

«Non ci vorrà molto», proseguì Jack, stringendo la presa. «Se resterai davvero ferma, finisco in pochi minuti. Dai…»

«Ho detto di no», ribatté la giovane e scosse il braccio per liberarsi. «Adesso lasciami andare o grido.»

«Per fav…»

«No!»

Harteveld, sbalordito da quel tono nuovo, autoritario, della sua voce, lasciò andare il braccio e arretrò di un passo.

Ma la ragazza era ormai su tutte le furie. Assecondando il movimento di lui, si slanciò in avanti, gridando: «Non m'interessa chi cazzo sei, hai capito?» e lo colpì sotto il mento con le unghie rosa, facendolo sanguinare.

«Merda!» Toby si afferrò il collo, esterrefatto di fronte a quell'improvvisa ferocia. «Perché lo hai fatto?»

«Così imparerai ad accettare un no come risposta», ribatté lei, voltandosi. «Ti sta bene.»

«Tu!» le gridò dietro Toby, sempre tenendosi il collo. «Ascolta, piccola troia… Non sei la benvenuta in questa casa, capito?» Ma lei, compiaciuta, soddisfatta, si stava allontanando in silenzio sul pavimento di pietra. «Vieni qui e approfitti della mia ospitalità, del mio vino, della mia droga… e mi fai questo, piccola vacca. Non sarai più la benvenuta

La ragazza, però, era scomparsa. Mentre allontanava le mani dal collo e si guardava le strisce nere di sangue, Toby capì che stava perdendo il controllo, che il male stava affiorando.

Non tornò alla festa. La domestica lo trovò il giorno seguente, raggomitolato su un divano, là dove si era trascinato a tarda notte, le mani piegate a mo' di chele di granchio sulla testa, il volto rigato di lacrime, il colletto incrostato di sangue. La donna non disse nulla, aprì le finestre e prese a pulire rumorosamente i posacenere.

Più tardi gli portò il caffè, un po' di frutta tagliata a pezzi e un bicchiere di Perrier. Posò il vassoio sul tavolo di marmo di Carrara e lanciò al giovane un'occhiata pietosa. Harteveld si girò e annusò l'aria frizzante che entrava dalle finestre. Era un'aria che sapeva d'inverno, di nubi e di neve. E di qualcos'altro. Stava per succedere qualcosa di male. La crisi era imminente.

Era arrivato il 4 dicembre e, con esso, il suo trentasettesimo compleanno.

Trovò la ragazza sotto il pianoforte prima delle tre del mattino, quando la festa stava ormai per finire. Aveva gli occhi rovesciati verso l'alto e si teneva le spalle con le braccia. Di tanto in tanto gemeva e si contorceva, simile a un grasso bozzolo. Aveva un tatuaggio sul bicipite, che pareva essere penetrato nella pelle circostante, e la bocca impastata di una sostanza biancastra.

Divertito, Toby posò il gomito sul piano e si chinò a guardarla. «Ehi, tu! Come ti chiami?»

Gli occhi della ragazza si mossero, cercando d'identificare chi o che cosa avesse prodotto quel rumore. Dopo aver chiuso e aperto la bocca un paio di volte, riuscì a rispondere: «Sharon Dawn McCabe».

Un accento e un nome scozzesi. «Sai di essere andata, vero?»

Lei ebbe un singulto e annuì, gli occhi chiusi. «Ah… so che… sono andata…»

Così Harteveld portò la povera e grassa Sharon in camera da letto, la spogliò al buio e la mise a letto. Se la fece molto velocemente, in silenzio, con indifferenza, aggrappandosi ai seni freddi di lei. La ragazza non si mosse né emise suoni. Sotto, la festa era ormai finita. Toby sentiva gli addetti al catering che ritiravano i bicchieri. Fuori, dietro la finestra buia, cadevano rapidi fiocchi di neve.

Accanto a lui, Sharon Dawn McCabe iniziò a russare molto rumorosamente. Lui se la fece ancora – era troppo ubriaca per capire o ricordare cos'era successo, rifletté – e poi si addormentò.

Sognò di essere di nuovo nel laboratorio di anatomia all'UMDS, in quel pomeriggio d'inverno, accovacciato sul pavimento, intento a fissare, inorridito, la grossa guardia che, con la sua mano bianca e molle, cercava di procurarsi un'erezione e poi, in punta di piedi accanto a un tavolo settorio, con uno sguardo d'intensa concentrazione, avvicinava i fianchi di una donna senza vita ai suoi.

Harteveld non poté più trattenersi, ed espirò, emettendo un lieve sospiro.

L'addetto alla sicurezza si fermò, paralizzato nella luce sempre più fioca, guardandosi nervosamente intorno per capire chi lo stesse osservando. Non era un uomo alto, ma a Harteveld, accucciato sul pavimento, pareva oscurare l'intero orizzonte. Aveva gli occhi lucidi e freddi.

Avrebbe potuto alzarsi, proteggersi, dissociarsi da quel quadro, invece rimase bloccato dalla paura. E, nell'attimo stesso in cui decise di non muoversi, la guardia, con la fronte rigata di sudore, capì che quell'esile studente di medicina col camice indosso aveva aspettato lì, al buio, per restare solo e fare esattamente la stessa cosa.

Quell'attimo svanì subito. Poi la guardia sorrise.

Harteveld si svegliò, anni dopo, nella casa di Greenwich, gemendo come un animale, l'immagine di quel sorriso ancora viva nella mente. La stanza era buia: solo un lieve fascio di luce lunare filtrava attraverso le tende. Rimase disteso, madido di sudore, a fissare il soffitto, ad ascoltare i battiti del suo cuore che rallentavano, ad aspettare che i pensieri si calmassero.

Capisco, gli aveva detto quel sorriso. Io sono come te. L'efferatezza e la malattia non possono rimanere separate a lungo. Alla fine si congiungono.

Harteveld si passò le mani tra i capelli ed emise un gemito. Poi si girò su un fianco, vide ciò che stava accanto a lui sul cuscino e dovette cacciarsi le dita in bocca per soffocare un grido.

22

Sharon Dawn McCabe si trovava a meno di trenta centimetri da lui, stesa sulla schiena, gli occhi aperti. Una schiuma sporca di sangue le usciva dal naso e dalla bocca, e le colava lungo il mento e il collo, dove aveva lasciato una scia mucosa.

«Oh… Dio… mio», sussurrò Harteveld, esterrefatto. «Ma che cazzo hai fatto?» Infilò una mano sotto le lenzuola e le tastò il polso.

L'orologio sul comodino indicava le 4.46 del mattino.

Col cuore che gli martellava, corse in bagno e riempì il lavandino di acqua fredda. Poi v'immerse il viso finché l'acqua non gli arrivò al collo.

Contò fino a venti.

La repressione, la lunga pulsione del desiderio, i giorni che diventavano settimane, anni, e ora, dopo tutto ciò, ecco che cosa accadeva. Una trappola del destino, immobile e bianca, sul suo letto. Proprio ciò che aveva desiderato in tutti quegli anni, l'unica cosa che non poteva avere dalle ragazze, indipendentemente da quanto le pagasse.