Выбрать главу

Si sollevò, ansimando, gocciolante.

Il suo volto gli ammiccò dallo specchio. In quella luce obliqua appariva stravolto. Dimostrava tutti i suoi trentasette anni: era come se fosse stato risucchiato dall'interno, prosciugato dalla tensione. Si diede alcuni energici pizzicotti sulle guance, sperando che il dolore gli ridesse la lucidità. Ma non ottenne altro che la sorda, familiare contrazione al ventre.

«Aiutatemi, per favore, aiutatemi…»

La sua voce era fievole, poco più di un sussurro. Nessuno lo avrebbe aiutato, lo sapeva. Si asciugò il viso e tornò in camera.

La stanza era avvolta dalle sfumature purpuree dell'alba. La ragazza era distesa e fissava con sguardo vitreo il soffitto; aveva la bocca aperta e le lenzuola pudicamente tirate fino alle spalle, come se avesse voluto morire con decoro. Tremando, Harteveld attraversò la stanza e aprì la finestra. L'aria era fredda e dolce, vagamente odorosa di neve. Il cedro del Libano spiccava sullo sfondo del cielo.

Se l'avessi voluto, se l'avessi davvero voluto… Lei non poteva dirti di fermarti. Nessuno l'avrebbe saputo. Nessuno doveva sapere…

Continuando a tremare, Toby si avvicinò al letto, tolse lentamente il lenzuolo e lo ammucchiò ai suoi piedi. Sharon aveva le braccia aperte, e lui gliele sistemò con cura, lungo i fianchi, i palmi ancora rosei rivolti all'interno. La scia di muco sul mento, simile alla bava di una lumaca, scintillò nella luce smorta. Edema. Edema polmonare. Prese un asciugamano bagnato e tolse con delicatezza la schiuma. Poi pulì la zona tra le gambe, là dove l'intestino aveva rilasciato il suo contenuto, e cambiò le lenzuola sporche. Il rigor mortis non era ancora iniziato, ed era facile spostarlo, quel placido ammasso di curve bianche circonfuse di luce azzurrina, i seni rotondi, il ventre morbido, le ginocchia grosse e grasse, le cosce lunghe: tutte le linee correvano dolcemente fino a incontrarsi nell'area livida del pube.

La parte interna del braccio destro era punteggiata di croste. Probabilmente aveva preso l'eroina di buona qualità che lui forniva agli ospiti e forse non era abituata a quella roba così pura. Era stata schiacciata dalla purezza. Nonostante tutto, Toby colse quel tratto ironico.

Si accovacciò, ponendosi all'altezza dei piccoli piedi bianchi. La pelle del collo del piede, ripiegata sui tendini, ricordava quella dei pesci salati. Gli occhi ciechi della ragazza baluginavano nella luce purpurea. Toby fece scorrere cautamente le dita sulle caviglie, avvertendo i monconi dei peli rasati e la pelle fredda, che gli fece battere più forte il cuore. Era morbida. Morbida e fredda… immobile.

La casa era ancora silenziosa e buia quando lui aprì le mani chiuse a pugno della ragazza e si stese sul letto.

Dopo fu colto da un tale disgusto di sé che si scolò un'intera bottiglia di pastis. In breve tempo lo vomitò quasi tutto. Il mattino seguente, al risveglio, fu colto da un accesso d'ira: lui era ancora vivo. E al suo fianco c'era il cadavere grigio, consumato.

Chiuse a chiave la grande porta di quercia ai piedi delle scale e tornò nel letto. Rimase steso accanto a lei tutto il giorno, le mani rigide lungo i fianchi, guardando dalla finestra la guglia della chiesa vicina che assumeva i colori dell'aria invernale: dal freddo avorio al caldo corallo, fino al bianco e al blu, per poi tornare di nuovo all'avorio. Arrivò la domestica e bussò alla porta di quercia. Non ricevendo risposta, non insistette. Ben presto si udirono i consueti rumori del giorno: l'aspirapolvere che veniva passato in corridoio, il ghiaccio che cadeva dal cedro, il tintinnio dei bicchieri che venivano riposti.

Harteveld continuava a fissare la chiesa.

Era stranamente calmo. Il dado era stato tratto. Lui aveva raggiunto un livello più profondo, un livello dal quale non avrebbe più fatto ritorno. Sapeva che il suo mondo si stava ripiegando su se stesso.

Si girò e sfiorò delicatamente i capezzoli irrigiditi della ragazza.

Quando la domestica tornò, qualche giorno più tardi, quella stessa settimana, Harteveld le andò incontro sulla porta principale con una busta bianca contenente duecentocinquanta sterline e una lettera di licenziamento. Si era rassegnato: sapeva esattamente ciò che sarebbe accaduto nelle settimane seguenti. Non poteva rischiare di avere testimoni.

I meccanismi della morte erano semplici per chi, come lui, conosceva le tecniche. Non ebbe perciò difficoltà a diventare un omicida. Nei sei mesi successivi ce ne furono altre. Approssimativamente una ogni cinque settimane. Harteveld pensava che qualcosa lo stesse consumando internamente, portandolo verso la morte. Riusciva a dimenticare tutto soltanto quando si trovava con le donne.

A fine maggio, i cadaveri erano cinque: tutti opera sua.

La graziosa Peace Nbidi Jackson, vent'anni, seconda figlia di Clover Jackson, aveva fatto la sua comparsa alla villa il giovedì sera, proprio mentre, a Eltham, il commissario capo stava rilasciando una dichiarazione alla stampa: così, quando suonò il campanello, Harteveld non sapeva ancora nulla del ritrovamento da parte della polizia di quei cinque corpi mangiati dai vermi scoperti in un'area desolata a East Greenwich.

Posò il bicchiere sulla mensola del caminetto, sfiorò il viso dipinto di Lucilla e si avviò verso la porta.

«Sei arrivata. Che bello!»

Lei rimase sulla soglia. La luce del tramonto conferiva alle sue braccia nude una tonalità ramata. Lui la fissò a lungo, sapendo che sarebbe stato l'ultimo a vederla viva.

«Posso entrare o che?»

«Sì, sì, naturalmente. Scusami.» Arretrò di un passo e lasciò che la ragazza entrasse e girovagasse per casa, gli occhi sgranati di fronte a quegli spazi così ampi da ricordare quelli di una cattedrale. Anche se aveva avvertito la puzza che lo preoccupava, non pareva prestarvi attenzione. «Entra pure, ti porto qualcosa da bere.» La seguì in salotto, accese le luci e aprì il mobile bar. «Vuoi bere qualcosa da qui? O preferisci un po' di vino?»

Peace si sedette diritta e composta sui cuscini di seta Braquenie. «Hai del Baileys?»

«Sì, certo.» Harteveld frugò in fondo al mobile. Avrebbe dovuto immaginarlo. Le ragazze desideravano sempre qualcosa di dolce. Versò il Baileys in un pesante bicchiere di cristallo. «Presumo che tu abbia un nome», osservò, sollevando il bicchiere alla luce con le sue dita lunghe. «Non è così?»

«Peace.»

«Carino», commentò lui, senza sorridere.

Peace lo guardò di traverso. «Perché non dovrei raccontare nulla di questa faccenda?»

Harteveld posò il bicchiere sul tavolo, e tornò al mobile bar per versarsi un pastis. «Peace, io mi trovo nella fortunata posizione di preoccuparmi meno dei soldi e più della discrezione. Ecco…» disse, aprendo il portafoglio in vitello ed estraendone dieci banconote da venti sterline. Le stropicciò e le piegò con fare esperto, quindi gliele porse con un movimento vagamente effeminato delle dita. «Io tengo fede al mio impegno. E, credimi, se tu non farai altrettanto, io lo verrò a sapere.»

Peace si guardò intorno, fissò il pianoforte a coda, il ritratto di Lucilla e di Henrick sopra il caminetto, le brocche di cristallo per il vino e parve soddisfatta. Prese il Baileys e si appoggiò ai cuscini. «Non lo dirò a nessuno.»

«Bene. Ora…» Harteveld si sedette sul bracciolo del divano. «Se guardi su quel tavolino, noterai una scatoletta d'avorio. La vedi?»

Sul tavolino cinese laccato si trovava una splendida scatola Ju in legno e avorio. «Sì.»

«Aprila.»

Lei sollevò il coperchio. In un letto di polvere bianca spiccava un cucchiaio d'argento per la coca.

«È la migliore. La più pura. Ma forse…» esitò, sorseggiando il drink. «… Forse preferisci l'eroina.»