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«L'eroina?»

«Sì.»

Lei sollevò lo sguardo e sfoderò un sorriso tutto denti. «Se è buona, certo che la preferisco.»

«È la migliore! La migliore…» Harteveld si alzò e, nella finestra buia, comparve il riflesso cupo della sua camicia. Tendendo la mano a Peace, mormorò: «Vieni con me, allora. Andremo a cercarla».

Peace voleva sapere che cosa c'era dietro la porta in quercia. «Viene una puzza da lì…» esclamò. «Non fai mai le pulizie lì dentro?»

«Non ti preoccupare.» Toby la allontanò dalla porta, conducendola lungo il corridoio principale.

«Allora, che c'è là dentro? E il resto della casa?»

«Ti ci porterò dopo», le promise lui, premendole la mano sulla spalla. «Ora non c'è nulla di cui ti debba preoccupare.»

In cucina scaldò rapidamente un po' di eroina in un padellino per le uova. Peace sorrise mentre vedeva salire le bolle e i lati del padellino rimanere di color argento, puliti. «Roba buona», commentò.

«Pura. Te la inietto io. So farlo in modo indolore.»

«Davvero?»

«Ero un medico.»

«Ma non nelle braccia, d'accordo? Mia madre me le controlla.»

«D'accordo.»

La fece sedere su uno sgabello e le legò una salvietta poco sotto il polpaccio. Quando apparve la vena, intrappolata tra la pelle morbida color caffelatte e l'osso bianco della caviglia, perforò la cute e la vena con l'ago e premette lo stantuffo della siringa.

«Ohhh», gemette debolmente la ragazza, sorridendo e afferrandosi la caviglia. «Ohhh, sei un macellaio…» Mentre la droga faceva il suo effetto, lei continuò a sorridere e sprofondò su una panca in pelle rossa. «Non sei un medico, sei un macellaio», borbottò, ormai assente. La testa le ciondolò, e la finestra scura rifletté i suoi occhi grandi e tondi. «Oh, Dio mio… È buona, comunque, proprio buona…»

Harteveld prese il pastis e rimase accanto al frigo, a osservarla. Pensò a quello che poteva fare con lei quella sera, a quello che lei poteva fare per lui, e una forza intensa, profonda, gli si scatenò nel ventre. Lei poteva aiutarlo a dimenticare in un modo in cui nemmeno l'eroina riusciva a fare. Quella ragazza era un dolce, piacevole oblio. «Se vuoi un effetto ancora migliore, ho un altro metodo», insinuò e, sorseggiando il drink, aggiunse: «Lo vuoi?»

«Sì», rispose lei, ridendo scioccamente e alzandosi, la testa ciondolante. «Ma prima vomito, se si può.»

«Là c'è il lavandino.»

«Grazie.» Sorrise e, scostandosi i capelli dagli occhi, vomitò sulla pila di piatti e di bicchieri. «Aaarg…» Lo guardò, sempre sorridendo, e si asciugò il naso bagnato. «Odio tutto questo, e tu?»

«Vuoi l'effetto rapido?»

«Sì, sì, sì», rispose lei, aprendo il rubinetto. La testa le dondolava. «Lo voglio, lo voglio, lo voglio.» Udendo la sua voce cantilenante, scoppiò a ridere. «Peace la vuole, dalla a Peace.»

Mentre lui riempiva la seconda siringa, lei si lasciò cadere sulla panca imbottita e reclinò la testa, fissando il soffitto. Il suo piede si muoveva a scatti. «Dalla a Peace…» Sbatté le spalle sul sedile, aprì la bocca e sobbalzò, ballando sul posto come fosse animata da una melodia interna, battendo rumorosamente le mani sulla panca e ridendo a crepapelle, come se al mondo non ci fosse nulla di più divertente.

Toby la osservava mentre era all'opera. Persino quand'era in preda all'eccitazione, rimaneva abbastanza lucido da considerare quel momento per ciò che era. Gli ultimi minuti della vita di quella donna, l'alito della morte che esaltava la sua vita: era stata altrettanto bella – così, accasciata nella cucina, intenta a cantare dolcemente tra sé – solo in un'altra occasione: quand'era nata. Quel momento, illuminato dalla luce soffusa della lampada di cucina, era la sua essenza racchiusa nell'ambra.

«Tirati su i capelli, Peace.» Dovette scandire quelle parole per evitare di pronunciarle con voce tremante. «Tirateli su e lascia che mi avvicini qui, alla tua schiena. Non sentirai nulla.»

Lei obbedì e diresse lo sguardo vitreo alla finestra, osservando il suo riflesso. «Che… cosa… è?»

«È eroina. Solo una piccola dose. Ma se la prendi così, proverai qualcosa che non hai mai provato prima.»

«Doo-oo-ool-ce», mormorò lei, miagolando come una gatta, e chinò il capo in avanti.

Una goccia di sudore cadde dal viso freddo di Harteveld sulla panca di pelle, ma lui non tremò. Una volta, una volta sola, gli era andata male. La ragazza non la voleva, e lui aveva dovuto legarla, imbavagliarla con un asciugamano, bloccarle mani e piedi con due delle sue camicie. Aveva lottato come una disperata, ma era molto piccola e lui era riuscito a immobilizzarla sul pavimento – ignorando l'urina che gli schizzava sui polpacci -, a infilarle l'ago tra le vertebre cervicali e…

L'intestino di Peace si liberò. La testa della ragazza si mosse una sola volta, di scatto. Quello fu l'unico movimento.

Harteveld si accasciò contro la parete, cominciando a tremare.

Era accaduto due notti prima. In quel momento, lui sedeva al buio, con Peace avvolta nella pellicola trasparente, sul pavimento. Era rimasto abbastanza con lei. Era giunto il momento di fare ciò che doveva, di dirle addio, di predisporre il necessario.

Trovò le chiavi della Cobra e aprì la porta dell'aranciera.

23

Sognò di Rebecca, in mezzo alla strada, con la pioggia che le gocciolava sui capelli dalla pianta di lillà, e si svegliò con un sobbalzo alle sei e un quarto. Al piano di sotto, Veronica si trovava già in cucina, intenta a tagliare il pane e ad aprire le persiane per lasciare entrare il sole. Indossava un vestito color acquamarina di seta thailandese, senza maniche. Sollevò la padella dalla mensola scaldavivande del caminetto – rivelando così una mezzaluna scura sotto l'ascella – e mise un ricciolo di burro di Normandia sulle aringhe affumicate color zafferano intenso. Poi staccò alcune foglie di prezzemolo da una pianta sulla finestra e Jack, che con aria addormentata stava sulla soglia, si rese conto di non avere la minima idea del momento in cui quella pianta era arrivata a casa sua né da dove provenisse.

«'Giorno.»

Lei inclinò la testa e lo guardò, notando i capelli scompigliati, la T-shirt e i boxer che aveva preso l'abitudine d'indossare invece del pigiama. Non aveva mai fatto commenti a quel proposito e, ovviamente, non aveva intenzione di farne in quel momento. Prese invece un cucchiaino, pescò un baccello di vaniglia dalla caffettiera, riempì una tazza e gliela porse. «'Giorno.»

«Come ti senti?»

«Diciamo non tanto bene da andare in ufficio.» Scosse la padella e vi gettò una manciata di erbe tritate. «Ah, non ce la faccio… Non posso toccare niente.»

«Dopo ieri sera?»

«Mi sento a terra. Stamattina ho urinato sangue e queste aringhe puzzano come il petrolio.»

«Non volevo svegliarti», disse lui, posandole una mano sulla spalla. Una mano asettica, neutra. «Com'è andata?»

«Come previsto, presumo», rispose lei, scostandosi i capelli dagli occhi. «Che cos'è quella roba?»

«Quale roba?»

«Quella roba in corridoio.»

«Oh, io… hmm…» La Barbie di Penderecki, ancora avvolta nella pellicola trasparente, era posata sopra la Samsonite, vicino alla porta. Quell'immagine lo aveva tormentato per tutta la notte: si era svegliato alle due, certo che fosse significativa per Birdman, era sceso dal letto, aveva recuperato la bambola dalla stanza di Ewan e l'aveva lasciata nell'atrio, per ricordarsene. «Niente», mormorò. «Solo un'idea.» Prese oziosamente un po' della radice presente sul tagliere. «Che cos'è? Ginseng?»

«È zenzero, sciocco. Sto preparando il mio Dal Kofta per il party.»

«Sei sicura di volerlo dare?»