Poi, all'improvviso, comprese. Reclinò il capo e respirò profondamente, sorpreso di sentire il cuore martellargli nel petto.
L'assassino aveva dovuto legare la Spacek perché era l'unica che aveva opposto resistenza. La ragazza non era tossicodipendente, e lui non riusciva a persuaderla a farsi una dose nella nuca. L'obiettivo non era drogare le ragazze per farle stare tranquille, e nemmeno minacciarle. La verità era molto più semplice, molto più tragica.
Le vittime erano consenzienti. Si erano voltate, magari avevano persino sollevato i capelli, arrotolandoseli intorno al polso, per far in modo che l'assassino avesse accesso a quella zona così delicata, al centro neurale che, secondo per secondo, giorno per giorno, regola l'attività dell'organismo: il tronco encefalico. Le aveva convinte che era quello che volevano, un modo veloce di raggiungere l'estasi – «La via più rapida per metterla in circolo» -, e le ragazze erano abbastanza disperate da accettare. L'assassino possedeva una conoscenza rudimentale, ma sufficiente, della medicina, era sicuro di ciò che faceva e conosceva le parole giuste per convincerle. Era un'ipotesi attendibile, specialmente se le ragazze, la cui volontà era ormai erosa da anni di tossico-dipendenza, conoscevano già il loro carnefice e avevano fiducia in lui.
«Ehi, tu!»
Jack si voltò. Un uomo alto e robusto con un vestito gessato stava camminando nella sua direzione. I lembi della giacca aperta svolazzavano, lasciando intravedere un paio di bretelle, una camicia e una cravatta blu. I radi capelli erano impomatati e pettinati all'indietro come quelli di Diamond. Al collo e al polso Jack notò un luccichio dorato. «La polizia doveva fermarvi. Ne ho abbastanza delle vostre intrusioni.»
Jack gli mostrò il distintivo e l'uomo si fermò a pochi metri da lui. «No, amico. Mi spiace, ma un'occhiata veloce così non mi basta, da' qua…» L'uomo picchiettò sulla palma della mano. «Un fottuto tesserino stampa, eh?»
L'altro si avvicinò ulteriormente e sollevò il distintivo. «Adesso va bene?»
L'uomo si strofinò il naso e infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. «Va bene, va bene. Non può certo biasimarmi, ieri siete andati avanti e indietro per tutto il tempo.»
«Lei è il signor North, il proprietario.»
«Già.»
«Non ci siamo presentati, ma io l'ho vista, la prima notte che siamo stati qui», spiegò Jack, rimettendosi il distintivo in tasca. «Sto dando un'occhiata in giro.»
«Pensa che lui tornerà a ficcare il naso da queste parti, eh? Dicono che tutti i cani annusano il loro vomito.» L'uomo spostò il peso sui talloni e guardò il cielo. «Bene. Quando posso sperare che smammiate dalla mia proprietà?»
«Non appena avremo trovato il colpevole.»
«Sono stato dal suo capo, oggi pomeriggio. Ho sentito che hanno preso qualcuno. È vero?»
«Non sono autorizzato a parlarne.»
«Un nero, eh?»
«Non sono autorizzato a parlarne, le ho detto.»
North si dondolò avanti e indietro e si strofinò di nuovo il naso. «Stamattina ho saputo che l'intera area è stata messa in liquidazione. Le disgrazie non vengono mai sole, eh?» Fece tintinnare le monete nelle tasche e scrutò ancora il cielo, nel punto in cui le nuvole si stavano ammassando. «Forse mi converrà chiedervi un risarcimento danni, eh?»
«Non posso impedirglielo», replicò Jack. «Ma ora, se mi vuole scusare…»
«D'accordo, d'accordo.» L'uomo, immobile, guardò Jack, che tornava sui suoi passi. Solo quando scomparve alla vista, North si mosse. Abbassò il capo e si accovacciò, prendendosi il volto tra le mani.
Sulla Thames Barrier cadeva di nuovo la pioggia.
Dopo aver fatto ciò che doveva col corpo di Peace, continuò a guidare. C'era una sola cosa da fare: continuare a guidare.
Meglio non guardare in basso, Toby.
Guidò per tutto il giorno, come se potesse cancellare quel sapore continuando a viaggiare all'infinito, attraversando temporali e paesaggi assolati, le case a schiera di Camden, coperte di foglie grondanti, le verdi distese di Hampstead, le strade viscide di Hyde Park, finché il motore della Cobra non diventò incandescente, rauco, e il sole non tramontò dietro Westminster.
Poco dopo il tramonto, Harteveld arrivò al London Bridge, col cuore in gola. Londra era ai suoi piedi, dalla punta di diamante di Canary Wharf, a ovest, attraverso quella distesa di milioni di luci riflesse nel Tamigi, fino alla sede del Parlamento.
Fermò la Cobra, estrasse dalla tasca il kit per la coca e l'aprì. Aiutandosi con un'unghia s'infilò un po' di droga nella narice sinistra. Alla sua destra, dietro la Guy's Tower, dove tutto aveva avuto inizio, la luna splendeva, pallida e bassa. Harteveld si appoggiò allo schienale e la fissò.
Sotto il ponte, l'acqua lambiva i pilastri.
Si strofinò le tempie e avviò la Cobra.
Meglio non guardare in basso.
27
Rebecca indossava un abito corto a fiori, che le lasciava le braccia scoperte; al polso aveva un kara, il tipico braccialetto dei sikh. Quando Jack aveva chiamato, era pronta per uscire. Di solito avrebbe evitato una mostra privata al Barbican, ma era un'opportunità per uscire da Greenwich, almeno per quella sera. Aveva bisogno di svagarsi. Dal giorno in cui Caffery ed Essex erano venuti da lei, Rebecca non aveva pensato ad altro: aveva passato il tempo davanti al cavalietto, senza lavorare, accarezzando, con aria assente, un pennello di zibellino, rievocando i volti, i volti di Kayleigh, Shellene, Petra, mentre Joni canticchiava tra sé e fumava un po' di marijuana, di Acapulco gold, col tè e il pane abbrustolito, rimanendo stordita fino a sera. Era stata chiara: non aveva nessuna voglia di parlare di ciò che stava accadendo; tornava di rado a casa e, quando accadeva, sulle due ragazze calava una pseudo-tranquillità alquanto insolita.
E, in quella tranquillità, Rebecca avvertì i primi, lievi sintomi del cambiamento.
Diamine, ce n'è voluto di tempo.
Due mondi a parte – lo sostenevano tutti – appartenevano a due mondi completamente diversi; il loro unico legame, un tempo importante, si stava indebolendo.
Rebecca proveniva dalle Home Counties. Suo padre – un uomo alto e serio col viso e l'atteggiamento da filosofo – era veramente felice solo quando, in completa solitudine, si ritirava nello studio con le sue edizioni di lusso dei sonetti d'amore elisabettiani. La madre, nel contempo, vagava per le stanze del piano superiore, infilandosi in bocca manciate di trazodone. Per gli esperti, si trattava di disturbo bipolare. Talvolta la donna stava a letto per giorni, dimenticandosi di lavarsi o di mangiare, dimenticandosi anche di avere una figlia cui badare.
Su queste basi Rebecca aveva dovuto costruirsi un'identità: gli Amoretti di Spenser, l'amitriptilina e le punizioni serali. Se la piccola Becky era troppo irrequieta, i tranquillanti della mamma finivano nel suo succo d'arancia.
Divenne un'adolescente esile e seria, convinta di essere assolutamente sola e diversa.
Sono i padri che esercitano violenza sui figli, non le madri. I giornali e la TV non parlano delle madri.
La ragazza scappò dal Surrey, inizialmente con l'intenzione di frequentare l'università e finendo invece a Londra. E un bel giorno conobbe Joni: in shorts, avanzava disinvoltamente verso di lei lungo le strade di Greenwich, con gli occhiali dalle lenti a cuore sul naso e uno spinello tra i denti. Parlava della sua «infanzia di merda» con la stessa veemenza di un predicatore. La vita di Joni era fatta di case popolari, di code per riscuotere il sussidio, di vomito sulle scale e di piccioni che si accoppiavano sul davanzale della finestra. Per Rebecca, quella era una musica familiare, tanto che decise di stare con lei.
«Mia madre. E colpa di mia madre se ho iniziato a drogarmi… Se un bel giorno non mi avesse fatto prendere i suoi tranquillanti, solo per farmi stare zitta… Me li faceva ingoiare a forza, e urlava che me le avrebbe date se non avessi preso quella roba. Bisognava farla a pezzi prima della mia nascita, quella vacca di una puttana.»