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«Vero, ma continuo a dare ragione alla Quinn. Dobbiamo perquisirle.»

«Sì», mormorò lei. «E quando troveremo ciò che cerchiamo, troveremo la Jackson.»

Per qualche istante, nessuno parlò. Il giorno seguente il primo compito di Paul sarebbe stato chiamare Clover Jackson e chiederle di andare alla stazione per esaminare le fotografie degli articoli recuperati nel bagno di Harteveld. Per verificare se la gonna verde chiaro fosse la stessa indossata dalla figlia la sera della sua scomparsa.

«D'accordo», sospirò Maddox. «Marilyn, l'elenco delle azioni da effettuare nella mattina con riferimento alle altre residenze di Harteveld. Voglio la Jackson prima che il tempo ne faccia ulteriore scempio.»

Dopo l'incontro, Jack, esausto, si tolse la cravatta e chiamò Rebecca.

«Stavo andando al parco», rispose lei. «Voglio dipingere il Naval College.»

«Ci possiamo vedere là?»

«Certamente. Tra mezz'ora? Ehi, stai bene?»

«Sì. Perché?»

«Be'…» Lei fece una pausa. «Non mi sembra.»

«Ma sì. Sto bene. Davvero.»

Quando riattaccò, Paul cominciò a strillare: «Tu, piccolo bastardo. L'hai tenuto segreto, eh? Dille che metta una parola buona per me con Joni. Dille quanto sono sensibile o qualche stronzata del genere».

Jack chiuse la cravatta nel cassetto della scrivania, si lavò il viso in bagno, infilò il cellulare in tasca e guidò fino a Greenwich. Il sole della sera dorava le antiche finestre del Royal Observatory quando arrivò al parco. Con Harteveld morto, avrebbe dovuto provare un senso di sollievo. Invece si sentiva a disagio, i suoi nervi erano tesi e pronti, come se il corpo si stesse preparando ad affrontare altre difficoltà. Sei solo stanco, Jack, si disse. Fai una bella dormita. Il mondo ti sembrerà migliore domani.

Lei era seduta sull'erba di fronte alla cupola a cipolla di Flamsteed, un blocco di carta per acquerello sulle ginocchia piegate e un pennello tra i denti. Stava mescolando i colori.

Jack si fermò, godendosi il lusso di osservarla senza essere visto. Il sole le illuminava una guancia, e lui credette quasi di scorgerne la sottile peluria dorata. Con quella gonna corta di tessuto scozzese pareva sorprendentemente vulnerabile. Su quella distesa di erba color smeraldo, sembrava quasi un incoraggiamento.

Becky posò il pennello, si asciugò le mani in un piccolo straccio e, come se avesse saputo che lui era lì da tempo, sbirciò verso l'alto, una mano sugli occhi per proteggersi dal sole basso.

«Ciao.» Non aveva trucco, e lui scorse un abbozzo di sorriso sulla parte destra della bocca. «Ciao, Jack.»

«Conosci il mio nome.»

«Sì.» Lei guardò in basso, e i capelli celarono la sua espressione. «Senti, ho del Borgogna», disse poi, prendendo lo zaino e porgendogli una bottiglia e un cavatappi. «E questo. Un sacchetto di nettarine. Spero che tu non pensassi di andare da McDonald's.»

«Questo significa che beviamo qualcosa insieme.»

«E allora?»

Jack si strinse nelle spalle, si tolse la giacca, si sedette sull'erba e le prese la bottiglia. «Non sono io a preoccuparmi.»

«In ogni caso, eri tu che volevi vedere me.»

«Vero.»

«Perché? Che cosa vuoi?»

La verità? Vorrei, vorrei… Lui si schiarì la voce. Cominciò a togliere la protezione di metallo dalla bottiglia. «L'abbiamo preso. Era Toby Harteveld. L'abbiamo annunciato alla stampa un'ora fa.»

«Ah.» Rebecca posò Io zaino e si passò una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Toby.»

«E c'è dell'altro.»

«Cosa?»

«È morto. Lo diranno stasera in televisione, ma io volevo che tu lo sapessi subito. Si è buttato dal London Bridge stamattina alle dieci.»

«Capisco.» Lei espirò lentamente, fissando la distesa di Londra sotto di loro. A monte, il London Bridge pareva puntare i suoi gomiti sulle sponde, fuori della foschia azzurra, e, a valle, luccicante vicino all'orizzonte venato di smog, c'era il Millennium Dome, simile a un osso pulito su uno sfondo azzurro. E, alle sue spalle, sorgeva l'area industriale… «Quindi è finita.»

«Credo di sì.»

Rebecca rimase a lungo in silenzio. Infine, come se avesse preso una decisione, come se volesse scrollarsi qualcosa di dosso, prese due bicchieri dallo zaino e li mise vicino a lui, sull'erba. Lo guardò, sorridendo. «Abbiamo qualcosa in comune. Tu e io.»

«Cosa?»

«Le unghie delle dita», rispose guardandosi le mani. «Da quand'è iniziata questa faccenda non sono riuscita a toccare nulla senza che le unghie mi si spezzassero. È come se lo stress uscisse di lì.» Tacque per un istante, poi chiese: «E tu, che scusa hai?»

Lui sorrise, sollevando il pollice coi segni della ferita. «Questo?»

«Sì?»

«Ah… Vuoi saperlo davvero?»

«Naturalmente.»

«Be', vediamo. Avevamo una casa sull'albero. Questa è la prima cosa.»

«Una casa sull'albero?»

«Adesso non esistono quasi più. Forse un giorno ti farò vedere dov'era.»

«Mi piacerebbe.»

«Mio fratello, Ewan, mi spinse. Avevo otto anni. U nero doveva scomparire, ma non è andata così. I dottori sono sconcertati. Per loro sono un mistero scientifico.»

«Spero che tu l'abbia ucciso, per questo.»

«Chi?»

«Tuo fratello.»

«No… io…» Fece una pausa. «No, l'ho perdonato. Credo.»

Jack sembrò chiudersi in se stesso e Rebecca si accigliò. «Quello che ho detto…»

«Non fa niente, non fa niente.» Jack stappò la bottiglia e le versò il vino nel bicchiere.

«Mi dispiace, non intendevo… Talvolta non ho proprio tatto.»

«No!» Lui sollevò una mano. «Veramente, Rebecca. Davvero… non… preoccuparti.»

Si fissarono: Rebecca era disorientata, Jack aveva un finto sorriso di sicurezza stampato in faccia. Il cellulare nella sua giacca colmò quel vuoto imbarazzante mettendosi a trillare e facendoli sobbalzare entrambi.

«Oddio.» Jack posò la bottiglia, si alzò, prese la manica tra l'indice e il medio e trascinò la giacca sull'erba. «Che tempismo… Scusami.»

«Ma certo», rispose lei, contenta di quel diversivo.

Jack prese la comunicazione.

«L'ho fatto.» Aveva una voce molto fioca.

«Veronica?»

«L'ho fatto.»

Jack guardò Rebecca e si allontanò, coprendo il microfono con la mano. «Veronica, dove sei?»

«L'ho fatto. Finalmente l'ho fatto.»

«Non parlare per indovinelli.»

Silenzio.

«Veronica?»

«Bastardo.» Lei trattenne il respiro come se stesse piangendo. «Te lo sei meritato.»

«Senti…»

Ma lei aveva già riattaccato.

Jack sospirò, mise il telefono tra i piedi e sollevò lo sguardo verso Rebecca. Stava tracciando linee nell'erba con l'estremità del pennello, senza guardarlo.

«Chi era?» chiese poi.

«Una donna.»

«Ah. Veronica? È questo il suo nome?»

«Sì.»

«Che cosa voleva?»

«Attenzione.»

«Ah», osservò Becky, appoggiando il mento sulla mano e guardandolo. «E tu hai intenzione di prestargliene?»

«No.»

Rebecca annuì. «Capisco.»

Non ti crede, Jack.

Lui cercò una sigaretta, e improvvisamente, da dietro i tetti rossi dell'Osservatorio, un gruppo di storni vocianti si alzò in aria. Jack si fermò e li fissò, impiegabilmente sorpreso. «Uccelli.»

Rebecca reclinò la testa per guardarli e la luce del crepuscolo le scivolò sul viso. Sorrise, citando due versi di Keats: «Tu non sei nato per la morte, uccello immortale! / Nessuna generazione affamata ti calpesta». Gli storni rotearono nell'aria, si fermarono per un breve istante, poi caddero in picchiata verso la terra, riempiendo l'aria di ali. Lei si rannicchiò, mormorando: «Oh…» Ma gli uccelli girarono di nuovo e scomparvero all'improvviso, com'erano apparsi, oltre la collina. Una piuma ondeggiò nell'aria e cadde ai piedi di Jack.