«Pensavo che volessero attaccarci!» esclamò lei, ridendo. Poi si sistemò i capelli, ridacchiando del suo nervosismo. Quando scorse l'espressione sul viso di Jack si bloccò. «Che cosa c'è?»
«Non lo so…» Lui scosse la testa. Aveva visto gli uccelli da vicino, aveva visto le iridi maculate e provato una contrazione allo stomaco. Pensò a Veronica, al mucchio d'ossa, al suo sorriso affascinato, malsano, nel momento in cui Penderecki era entrato nella stanza, neanche fosse stata lei a programmarne la comparsa. Improvvisamente spense la sigaretta e si alzò. «È meglio che vada.»
«Allora le presterai attenzione.»
«Sì», rispose lui, srotolandosi le maniche. «Credo di sì.»
La Tigra rossa di Veronica era parcheggiata fuori della casa. Con compiacimento. Come se avesse il diritto di stare lì. Era buio, ormai. Sopra i tetti, dalla parte di Penderecki, oltre la ferrovia, una sottile colonna di fumo si levava al cielo. La casa era avvolta nell'oscurità. Jack entrò con cautela, preparato al peggio.
«Veronica?» Rimase immobile, nervoso in casa sua. «Veronica?»
Silenzio. Accese la luce del corridoio e si fermò. Era tutto come lui l'aveva lasciato: il tappeto dell'ingresso leggermente spostato, la borsa della tintoria dimenticata contro il battiscopa… Attraverso la porta aperta della cucina scorse persino la tazza del caffè che aveva bevuto quel mattino. Chiuse la porta, appese la giacca alla balaustra e andò in cucina.
«Veronica?» Mancava l'aria, lì dentro. Sul davanzale della finestra una delle piante di Veronica, una buganvillea di un rosso ripugnante, era fiorita. Gli sembrava che stesse filtrando tutto l'ossigeno di casa coi suoi petali grassi e sgargianti. In fretta aprì la finestra, lasciò entrare in cucina l'odore acuto del fumo e bevve una sorsata veloce direttamente dalla bottiglia di Glenmorangie.
Il soggiorno era tranquillo: i preziosi bicchieri nelle loro ceste di vimini stavano ancora aspettando di essere portati via. Aprì le porte finestre e tornò in corridoio. In sala da pranzo scoprì la prima prova della presenza di Veronica. La stanza era stata pulita completamente, in maniera ossessiva: il profumo del lucido per mobili alla lavanda era ancora forte nell'aria.
Rimase nel corridoio a lungo prima di notare, appoggiato sulla mensola del caminetto, un biglietto coi bordi neri, come quelli usati per le condoglianze. Il messaggio era semplice.
Vaffanculo, Jack.
Con affetto, Veronica.
«Grazie, Veronica.» S'infilò il biglietto in tasca, aprì i bovindi e tornò in corridoio. Gli unici rumori erano il ticchettio dell'orologio del nonno e il ronzio meccanico e pigro di una mosca morente. Di sopra, allora. Lei doveva essere di sopra.
«Sono qui, Veronica.» Si fermò a metà strada dal pianerottolo, guardando le porte chiuse delle camere da letto. «Veronica.» Silenzio. Mosse gli ultimi passi e si fermò, posando la mano sulla porta della stanza da letto.
Improvvisamente si sentì sopraffatto dalla stanchezza. Se Veronica, sdraiata sul suo letto, si era fatta un'overdose di farmaci, allora lui avrebbe passato un'altra notte insonne.
Pronto soccorso. Lavanda gastrica. Visita psichiatrica. La famiglia, grigia come il granito, seduta in silenzio. E senza dire neppure una parola gli avrebbe fatto capire che il responsabile era lui.
Oppure lui avrebbe potuto – il pensiero lo fece tremare -, sì, avrebbe potuto voltarsi e uscire dalla porta. Chiamare Rebecca, scusarsi per essersene andato, incontrarla per un drink, trascorrere la serata con lei cercando di portarsela a letto, mentre Veronica se ne andava silenziosamente, da sola.
Rimase in piedi, il cuore che batteva all'impazzata, mentre quell'idea svaniva rapidamente com'era arrivata. Jack fece un lungo, profondo respiro e lentamente, molto lentamente, aprì la porta della camera da letto.
«Merda.»
Aveva fatto il letto e aveva spolverato anche lì. Ma non c'erano impressionanti immagini di morte, nessuno schizzo di sangue sul muro, nessuna bottiglietta vuota di farmaci. Non c'era nemmeno Veronica.
Rapidamente controllò l'armadio. Tutto era come doveva essere, compresi gli asciugamani piegati ordinatamente in pile bianche. La sveglia, accanto al letto, ticchettava. Allora si trovava nella camera di Ewan… Ritornò sul pianerottolo e vide che la porta di quella stanza era aperta. Veronica stava a mezzo metro da essa e lo fissava.
«Veronica.»
Si studiarono per un momento, le pulsazioni alle stelle. Lei indossava una camicia bianca di seta e pantaloni larghi, sempre bianchi, di lino; una sciarpa decorata con piccole fibbie d'oro era fermata al collo da una spilla di diamanti. Appariva pallida, controllata. Nulla suggeriva che avesse provato a farsi del male.
«Perché sei a casa mia?»
«Sono venuta a prendere i bicchieri di mamma. È permesso?»
«Prendili e vattene.»
«Un po' di educazione.» Inspirò, inarcando le sopracciglia. «Conosci questa parola, Jack? Educazione.»
«Non sono qui per discutere…» replicò lui, interrompendosi subito. Osservò il resto della stanza, gli scaffali vuoti, le scatole dell'archivio sul pavimento: aperte, spaccate, svuotate.
Per un momento rimase lì, senza scomporsi, in silenzio, immobile: sentiva soltanto il ritmico tonfo del suo cuore.
Merda, sa esattamente dove colpirmi. Poi avanzò, ignorando Veronica che stava in piedi, calma, al suo fianco, e si accovacciò tra i resti, con mani tremanti. Mentre esaminava i contenitori – sollevandoli, girandoli, scuotendoli, scorrendoli – già sapeva che avrebbe trovato ben poco. Sapeva quanto diligentemente un cuore ferito come quello di Veronica sapesse fare il suo lavoro.
«Be'?» esclamò lui infine, appoggiandosi ai talloni, respirando a fatica. «Allora? Cos'hai fatto? Dove hai messo tutto?»
Lei si strinse nelle spalle come se quel suo interesse la sorprendesse e si girò con noncuranza verso la finestra. Con riluttanza lui seguì il suo sguardo. Dietro le tende chiare, sollevate, alcuni fili di fumo salivano pigramente verso la luna.
«Merda», sospirò lui. «Già, è ovvio, avrei dovuto immaginarlo.» Stancamente si alzò e attraversò la stanza, appoggiando le dita fredde sul telaio della finestra. E lì, proprio come si era aspettato, dall'altra parte della trincea, illuminato di rosso e di nero dai tizzoni, stava Penderecki, intento ad aprire il coperchio dell'inceneritore per gettarvi dentro un altro mucchio, fischiettando e sorridendo come se avesse atteso l'arrivo di Jack.
«Oh, Veronica.» Appoggiò la fronte rovente contro il vetro ed emise un lungo respiro. «Sarebbe stato meglio se mi avessi strappato il cuore.»
«Dai, Jack, non esagerare.»
«Troia», mormorò lui. «Piccola troia.»
«Come? Che cos'hai detto?»
«Puttana.» Jack si voltò con calma verso di lei. «Ti ho chiamata puttana.»
«Tu sei pazzo», esclamò lei, incredula. «Sai, a volte mi fai sperare che quel pervertito abbia davvero ucciso tuo fratello. E anche lentamente.» La sua faccia si contorse. «Perché te lo meriti, Jack. Te lo meriti per il modo in cui stai uccidendo me. Tu mi stai uccidendo…» Ma lui l'aveva ormai afferrata per il braccio. I bottoni del polsino schizzarono nella stanza. «Jack!»
Lui la trascinò alla porta, calpestando e sparpagliando i contenitori vuoti.
«Jack!» urlò di nuovo Veronica, sferrandogli un calcio. «Lasciami andare, Jack!»
«Sta' zitta.» La rabbia lo aveva reso forte e calmo. La trascinò lungo le scale, godendo della sua impotenza, del suo inutile gridare e combattere, le unghie curate che si spezzavano sulla balaustra. Alla fine delle scale si fermò e la tenne a un braccio di distanza, osservandola.
«Cristo.» Lei si divincolò, liberando il braccio, e fece un passo indietro, massaggiandosi il gomito, gli occhi sgranati, i capelli arruffati. Le era scoppiato un capillare nella cornea dell'occhio sinistro, ma il viso era asciutto. L'aveva spaventata. «Non mi toccare mai più, hai capito? Non…»