Susan lasciò cadere la testa e prese a singhiozzare.
Krishnamurthi era a tre quarti dell'autopsia. Chino sul tavolo settorio, travasava con un mestolo i liquidi della cavità corporea di Peace in un contenitore per misurazione che si trovava all'altezza delle gambe di lui. «Bene, ragazzi», esclamò infine, raddrizzandosi e guardandosi intorno nella stanza. «Che ne dite se oggi facciamo un tentativo con la Virchow, giusto per tenerci in allenamento? Passami le pinze, Paula.» La tecnica gliele diede. Con cautela, il medico estrasse una piccola massa grondante dal corpo della Jackson e la posò sulla bilancia. Paula segnò il peso su una lavagna. Nessuno parve sorpreso dall'uccello. Il caso Harteveld era ormai tristemente noto: sapevano tutti che cosa aspettarsi.
«Bene. Adesso…» commentò Krishnamurthi scrutando nella cavità toracica. «Sì, avulsione estesa come abbiamo visto nelle altre…»
«Avulsione…» ripeté Jack. «Che cos'è?»
«Si dice così quando il tessuto viene strappato dall'osso o dal tessuto connettivale naturale.» Krishnamurthi sollevò il viso protetto dalla mascherina e guardò il detective, aggiungendo: «Ah, signor Caffery…»
«Sì?»
«La vostra consulente della Scientifica, Jane Amedure, mi ha detto che questa vittima è stata ritrovata in un luogo diverso…»
«È così.»
«E non è mai stata portata nell'area industriale?»
«No, è sorvegliata da due settimane. Perché?»
«C'è della polvere di cemento tra i suoi capelli e sulla sua faccia, proprio come sulle altre. E con le altre avevamo pensato che la polvere provenisse dall'area industriale.»
Jack aggrottò le sopracciglia. «Bene», mormorò, premendosi lievemente le dita sulle tempie. L'appartamento a Halesowen Road.
Il medico sollevò lo sguardo. «Fiona Quinn deve esaminare un'altra abitazione, questo pomeriggio: le dirò di ricercare tracce di cemento.»
Che cosa mai troveranno?
Susan lo sentì entrare nella stanza e immediatamente si acquietò.
Era sdraiata, immobile. Si stava preparando. Lo udì attraversare la stanza fino al lato opposto e battere tre volte contro il muro. Era agitato.
Fallo ragionare. Puoi tirarti fuori da questa situazione. Parla… Fa' che ti consideri una persona. Lui vuole renderti un oggetto. Non permetterglielo.
Ogni muscolo in allarme, pronta a parlare, a combattere per la propria vita, Susan osò aprire lentamente gli occhi.
Lui non la stava nemmeno guardando.
Era a quasi un metro da lei. Indossava un camice da ospedale azzurro e una mascherina da chirurgo; i capelli erano nascosti in una cuffia a scacchi, simile a quelle usate nelle sale operatorie. Ai suoi piedi, c'era una scatola rossa di plastica portastrumenti. Era basso, grassoccio, ma agile, Susan lo sapeva dal modo in cui la sera precedente aveva scavalcato i sedili della macchina. Ed era forte, più forte di quanto avesse creduto.
L'uomo stava osservando attentamente la foto di una donna dal viso piccolo e liscio, da bambola. Capelli biondi. Trucco pesante, ombretto blu e labbra lucide, color prugna. Lui premette le mani sulla foto, coprendo i lineamenti, i grandi pollici appoggiati esattamente sopra la bocca, come se avesse voluto raggiungere i denti, la lingua, le tonsille.
Poi, improvvisamente, si voltò. «Allora?»
Susan trasalì. Sapeva che lo stavo guardando. Senza nemmeno vedermi sapeva che lo stavo guardando.
«Allora?» ripeté l'uomo, avvicinandosi a lei. Gli occhi apparivano irrequieti al di sopra della mascherina.
«Mi chiamo Susan», disse lei, parlando velocemente, senza balbettare. Non dimostrargli che hai paura. «Mio padre è un magistrato. È molto potente.»
«Un magistrato!» La voce dell'uomo era allegra, divertita. «Questo dovrebbe preoccuparmi?»
«No… io… Cosa vuoi da me?»
«Tu cosa pensi? Cosa credi che voglia?»
Prega che ti violenti e basta. Susan, prega che non ci sia altro.
«Per favore, non farmi del male.» Lei si raggomitolò, singhiozzando, cercando invano di coprirsi il seno con le braccia legate. «Per favore, no.»
«Non è scomodo avere tette così grosse?» sbottò lui e, allungando le mani sudate, le afferrò i seni, cercando di controllare la sua reazione. «Come fai a sederti a tavola con quei cosi davanti? Non ti danno fastidio?»
Susan indietreggiò. Aveva sentito la mano scorrerle sull'addome, sull'inguine. «Per favore, no, per favore…»
Lui si alzò e un grumo di muco marrone cadde a pochi centimetri dal viso di Susan. «Lo sai che cosa devo fare, vero?»
Lei scosse la testa, mentre le lacrime le bagnavano i capelli.
«Rispondimi.»
«Non farmi del male…»
«Ho detto: lo sai che cosa ci devo fare con le tue grosse tette del cazzo?» quasi urlò, sferrandole un calcio al fianco. Poi, improvvisamente la sua voce divenne calma. «E smettila di piangere. Disturbi la signora Frobisher.»
Susan, ansimando, si girò su se stessa, sempre singhiozzando.
Lui sedette a cavalcioni sopra di lei, bloccandole le spalle tra le ginocchia grassocce. Prendendola per i capelli, le voltò la testa. «Ascolta, adesso.»
Si allungò e aprì la cassetta portastrumenti.
Susan riuscì a vedere forbici, pinzette, un pennello affusolato di zibellino, una trousse di ombretti iridescenti, turchese, pesca, fucsia, rosso…
«Questo può andare.» Lo scatto del metallo, lo schiocco dei guanti in lattice che venivano indossati, qualcosa che veniva estratto dalla cassetta… Oddio, che cos'è quello? Un bisturi?
Lui si chinò e le prese il seno destro. «Adesso.» Una goccia di sudore cadde dalla fronte dell'uomo sui capelli di Susan. «Allora, siamo pronti?»
Alle tre del pomeriggio, Logan e Fiona Quinn arrivarono al piccolo appartamento tra Lewisham e Greenwich. Accompagnati da un agente in uniforme, si avvicinarono con espressione seria e i distintivi alla mano. Non si aspettavano di ottenere risposta. La Quinn parlò nel suo Sony Professionaclass="underline" «Sono le 15.14, numero 7 di Halesowen Road, appunti per il verbale di perquisizione: l'appartamento è sgombro, non c'è nessuno che ci permetta di entrare, nessun vicino, quindi secondo il Codice sugli Edifici…» – premette il tasto di pausa e arretrò per permettere all'agente di avvicinarsi -,«… useremo la forza per entrare, in adempimento al mandato di perquisizione H/00… Maledizione! Un attimo…» Nella tasca, il suo cellulare stava suonando. La donna spense il Professional e prese il telefono. Era Jack, che le chiedeva di aggiornarlo. Lei lo fece, ma da una cabina telefonica.
«Che aspetto ha?»
«Se mi lasciasse entrare, glielo potrei dire.»
«Deve cercare della polvere di cemento… magari in un fabbricato annesso, in un garage. È lì che ha tenuto i cadaveri.»
«D'accordo. Adesso posso procedere?»
«Naturalmente. Naturalmente. Mi scusi.»
40
A Shrivermoor, le squadre investigative non diedero importanza al fatto che la perquisizione – l'ultima formalità – non fosse completa. Avvertivano di essere prossimi alla conclusione. Maddox fece un breve discorso, ricordando a tutti che quello non era davvero il momento di rilassarsi e che bisognava ancora confrontare i campioni, ma fu costretto ad alzare la voce per essere ascoltato. La Kryotos aveva sollevato le veneziane e il sole pomeridiano si riversava nella stanza per la prima volta dopo giorni. Le foto delle ragazze morte erano state girate a faccia in giù. Betts ed Essex sgattaiolarono fuori per prendere qualche birra mentre le sedie venivano avvicinate alle finestre, le scarpe tolte e i cavatappi recuperati dal fondo dei cassetti della scrivania. Maddox scosse la testa e concluse: «Va bene, ma non dimenticatevi che domani si torna alla normalità».