La squadra F sciacquò le tazze del caffè e le riciclò per la birra. Dato che non c'era altro da fare per il resto della giornata, le addette all'archivio allontanarono le sedie dalle scrivanie e permisero a Betts di versare loro un po' di vino nei bicchieri di carta. Jack, appena tornato dall'obitorio, si allentò la cravatta e aprì una Pils mentre Paul, felice come un bambino, si tolse la camicia, si annodò la cravatta intorno al collo nudo e trovò un punto in cui il sole entrava nella stanza per sedersi coi piedi sulla scrivania.
A un certo punto si girò per guardare la squadra F, radunata intorno a un tavolo a forma di T, con una lattina di birra di fronte a ogni agente. «Ci libereremo di voi, amici; ben presto ve ne tornerete a Eltham.»
«Almeno potrete tornare a leggere Woman's Realm senza vergognarvi», esclamò uno. «Lontano dalle nostre terribili occhiatacce.»
«E io potrò indossare di nuovo il mio vestito preferito», esclamò Paul in tono enfatico. «Quello color pesca…»
«Vi ritroverete in mezzo a gente che vi capisce.»
«Vi sentirete più a vostro agio.»
«Avrete più fiducia in voi stessi.»
«Sarete una compagnia più gradevole…»
«… e anche più belli da vedere.»
Jack si appoggiò allo schienale della sua sedia, guardando fuori, in corridoio. La porta vicino al suo ufficio era aperta. Era la sede della squadra F, il quartier generale di Diamond. Il corridoio era buio, dalla porta aperta un raggio oblungo solcava il pavimento, oscurato di tanto in tanto da un'ombra. Diamond si trovava lì dentro: stava impacchettando le sue cose per ritornare a Eltham.
Le risate continuarono. Paul teneva la Kryotos sulle ginocchia. «Con l'aiuto della graziosa Marilyn, vi voglio far vedere come ci si può attrezzare in quest'epoca difficile, in questi duri giorni che ci hanno fatto comprendere l'importanza della parsimonia…»
Jack si alzò, inosservato. Prendendo una lattina di Pils, uscì dall'archivio.
Diamond stava impacchettando le cose in una cassa gialla, scostandosi di tanto in tanto i capelli dalla fronte, su cui ricadevano perché privi del consueto gel. Dai piccoli cactus e dalla foto della famiglia posata sulla scrivania, Jack comprese che Diamond si era aspettato di rimanere lì ben più a lungo di due settimane.
Rimase nel corridoio e osservò il collega mentre questi soffiava via la polvere dalle piante e toglieva il calendario Michelin dal muro. Trascorsero cinque minuti. Diamond passò lo straccio sulla scrivania un'ultima volta, svuotò un vasetto di fermacarte nel cestino e infine si raddrizzò. «Sì?»
Jack entrò. «Ti ho portato una birra.» La mise sulla scrivania e indicò una foto che stava in cima ai raccoglitori disposti nella cassa gialla: due ragazzini, eleganti nelle loro divise blu, da scuola. «Ti somigliano. Devi esserne fiero.»
«Grazie…» disse Diamond, lanciando una lunga occhiata a Jack. Aveva la bocca lievemente imperlata di sudore e si dovette asciugare la fronte con la manica. Mise la foto a faccia in giù, spinse la birra sul tavolo, si allontanò da Jack e prese a sigillare la cassa. «… ma non bevo in servizio.»
Quando Susan si svegliò, lui se n'era andato. Si trovava in una camera da letto – l'aveva legata al letto -, intontita e disorientata, rossa e nera, il viso e i seni che pulsavano. Gli occhi erano tanto gonfi che le palpebre superiori sfregavano contro quelle inferiori, come se le ciglia fossero state capovolte.
L'aveva imbavagliata con nastro per pacchi e aveva scattato polaroid mentre la torturava; poi gliele aveva mostrate. Nel vedere la prima, Susan aveva urlato: non riconosceva la sua povera faccia e i suoi occhi gonfi. Tuttavia, dopo quella prima foto, non ricordava granché. Aveva perso e riacquistato conoscenza più e più volte.
L'orologio appeso al muro indicava le cinque e mezzo. Aveva dormito – sono rimasta svenuta? - per otto ore. Sapeva che le stava venendo la febbre, e sapeva che ciò significava che le ferite erano infette. Ne sentiva l'odore: la punta del capezzolo destro, poi, era rossastra e gonfia intorno all'incisione nera e incrostata.
Rimase immobile, in ascolto. C'era un uccellino, da qualche parte nell'appartamento, ma non cantava… pigolava, piuttosto, lamentandosi. Fuori, si avvertivano lo scricchiolio e il ronzio di… che cos'era quella? Una gru? e ogni tanto la vibrazione sorda di un camion ribaltabile che veniva caricato. Lavori in corso. Dunque non si trovava vicino a Malpens Street. Non c'erano lavori nella sua zona… Allora dove? Dove sei, Susan?
Una voce le diceva che non era lontana da casa. Che si trovava ancora a Greenwich o Lewisham.
Chiuse gli occhi e cercò di riflettere. Dov'era il cantiere più vicino a Malpens Street? Dove? Ma lo sforzo le risucchiò via anche gli ultimi brandelli di forza. Avrebbe riposato per un po'. Poi avrebbe provato ad avvicinarsi alla finestra.
Il gruppo si sciolse. Paul, indossata nuovamente la camicia, raccolse dai tavoli le lattine vuote mentre Marilyn, reggendo tra le mani quante più tazze poteva, stava in piedi vicino alla stampante: era in arrivo un rapporto dalla SPECICRIM. Betts stava togliendo le fotografie dai muri.
Sfregandosi gli occhi irritati dalla formaldeide dell'obitorio, Jack rifletté sulla sua incapacità di rilassarsi di colpo, come gli altri. Ma lui desiderava chiudere davvero l'indagine: voleva trovare la fonte della polvere di cemento. Aveva trascorso la maggior parte della sera seduto davanti a una finestra aperta, immobile e pensieroso, limitandosi a fumare e a osservare le spirali azzurrine dissolversi nell'aria. Erano da poco passate le sette, quando la macchina di Fiona Quinn si fermò nella strada sottostante.
Jack si protese improvvisamente, spegnendo la sigaretta. Qualcosa non andava. Riusciva a percepirlo dal ritmo con cui la Quinn e Logan erano scesi dall'auto.
Andò loro incontro in corridoio. «Che cos'è successo?»
Logan lasciò cadere sul pavimento la cassetta gialla dei reperti e si passò una mano tra i capelli. «Meglio non chiedere niente.»
Nell'archivio sollevarono tutti lo sguardo, in attesa. Quando Maddox notò le espressioni della Quinn e di Logan, chinò la testa. «Oh, per l'amor del cielo… Non ditemi che…»
«Ci spiace, signore. Alcuni strumenti per consumare la droga, quasi mezzo chilo di eroina, ma, per quello che c'interessa, il luogo era pulito.»
«Niente di organico», precisò la Quinn.
«Merda.» Maddox portò la mano alla fronte. «Torniamo alla foto, allora. Ma riusciremo mai a liberarci di…»
«Signore?» Si voltarono tutti. Marilyn Kryotos stava in piedi vicino alla stampante, un'espressione sbigottita sul viso. Un'onda di carta si sollevò e si arrotolò nella sua mano.
«Cosa?»
«Abbiamo una vittima, a Greenwich. È stata gettata in un cassonetto. È viva ma…» S'interruppe, alzando gli occhi. «… ma quel farabutto si è divertito a sottoporla a pratiche chirurgiche amatoriali.»
41
Quando arrivarono, Susan si trovava ancora al pronto soccorso, in stato d'incoscienza. L'infermiere che l'aveva portata in ospedale, Andrew Benton, un giovane di colore dal viso aperto e con una barba tanto corta da sembrare di un giorno, era rimasto scosso dall'esperienza. Ne parlarono in una piccola stanza vicino al gabbiotto delle infermiere.
«Cazzo, sa, le dirò, ho visto tante cose nella mia vita, ma questa…» Scosse la testa. «Questa mi ha fatto veramente andare fuori di testa. E per quanto riguarda lui, il marito…»
«L'ha trovata lui?» chiese Maddox.
«Ma se lo immagina? Trovare la tua donna in quello stato! Si trovava nel cassonetto di fronte a casa loro. Ecco il valore che quel bastardo le ha dato. Una vita umana uguale spazzatura.»
«A che ora è arrivata la chiamata?»
«Alle undici. Mi hanno detto che si trattava di un'ubriaca.» Poi, guardandolo negli occhi, aggiunse: «Sa, il signor Lister, quando ha chiesto aiuto, pensava che fosse una vagabonda. Quel tizio, quell'animale, aveva buttato la donna a testa in giù nel cassonetto, dandola per spacciata». La sua faccia si contrasse. «Non riuscirò a dormire stanotte, pensando a come si sentirà lui.»