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«Tutto qui?» Paul scese a fatica dalla Jaguar e sbatté la portiera. «Non hai un'ipotesi migliore di 'possiede un'auto'?»

«No.» Jack fece roteare le chiavi intorno a un dito, poi le infilò in tasca. «Non ancora.»

Nell'edificio l'ascensore era rotto, perciò salirono a piedi le quattro rampe di scale. Di tanto in tanto Jack si fermava per permettere a Paul di raggiungerlo.

Maddox gli aveva spiegato com'era fatto Paul Essex: «Ogni squadra deve avere un buffone. Nella B abbiamo Essex. Gli piace tenere allegri i ragazzi: giura che, quando va a casa la sera, s'infila un baby doll e passa l'aspirapolvere. Sono tutte stronzate, ovviamente: accettale, ma prendilo sempre sul serio. In verità è un poliziotto fidato, una roccia…» E lentamente Jack stava iniziando a credere nell'innato buonumore di quell'uomo, forte come un cavallo da tiro. Ciò in base al modo con cui le donne lo trattavano: come un vecchio orso ferito. Flirtavano con lui e lo stuzzicavano, si sedevano sulle sue ginocchia e gli davano affettuose pacche sulle spalle quando scherzava. Ma forse avevano segretamente capito che lui agiva a un livello emotivo troppo profondo per le loro capacità: infatti, all'età di trentasette anni, il sergente Essex viveva ancora da solo. Questa consapevolezza induceva talvolta in Jack un senso di colpa per la naturalezza e la serenità con cui viveva la sua vita. Persino in quel momento, la discrepanza risultava palese: Jack raggiunse l'appartamento di Harrison calmo, pronto all'azione; Paul si trascinò per gli ultimi gradini per fermarsi poi sul pianerottolo, ansante, sudato e paonazzo in volto, allentandosi il colletto della camicia e scuotendo i pantaloni appiccicati alle gambe. Impiegò parecchi minuti per riprendersi.

«Pronto?» chiese Jack.

«Sì», annuì l'altro, asciugandosi la fronte. «Andiamo.»

Jack bussò alla porta di Harrison.

«Che c'è?» La voce proveniente dall'interno era assonnata.

Chinandosi, Jack si avvicinò alla buca delle lettere. «Il signor Harrison? Barry Harrison?»

«Chi lo vuole?»

«Il detective Caffery», rispose, lanciando un'occhiata fulminea a Paul. C'era un inconfondibile odore di marijuana. «Vorremmo scambiare quattro chiacchiere.»

Si udirono un sibilo e il rumore di un corpo che si trascinava fuori del letto. Poi quello dell'acqua di un rubinetto, dello sciacquone del water: infine la porta si aprì. Il catenaccio tagliò in due il volto dell'uomo: due occhi azzurri rotondi e una barba poco curata.

«Signor Harrison?» chiese Jack, mostrando il distintivo.

«Che succede?»

«Il sergente Essex e io possiamo entrare?»

«Se mi dite perché, sì.» Era magro e lentigginoso, nudo dalla vita in su.

«Vorremmo parlarle di Shellene Craw.»

«Non è qui, capo. Non la vedo da giorni.» Fece per chiudere la porta, ma Jack la bloccò con la spalla.

«Voglio parlare di lei, non con lei.»

Harrison scrutò Caffery ed Essex, come per valutare chi avrebbe avuto la meglio in uno scontro. «Sentite, lei e io abbiamo chiuso. Se è nei guai, mi spiace, ma non eravamo sposati né altro, perciò, vedete, non sono responsabile.»

«Non la arresteremo, stia tranquillo.»

«Non mollate proprio, eh?»

«No, signor Harrison.»

«Oh, cazzo!» La porta si chiuse, e lo udirono togliere il catenaccio di sicurezza. «Facciamola finita. Forza, entrate.»

Il soggiorno di Harrison era piccolo e sporco: da un lato dava su un balcone, dall'altro sulla cucina, costellata di smorte pianticelle e di scatole di Kentucky Fried Chicken. Il pavimento era disseminato di cartine di sigarette e di tabacco.

Jack si sedette, senza essere invitato, su una sedia di plastica blu accanto alla finestra e incrociò le braccia. «Quando ha visto per l'ultima volta Shellene, signor Harrison?»

«Chessò… Un paio di settimane fa.»

«Può essere più preciso?»

«In che razza di guai si è cacciata adesso?»

«Un paio di settimane significa una settimana o un mese?»

«Non ricordo.» Harrison s'infilò una T-shirt ed estrasse un pacchetto di sigarette dai jeans. Prese una Silk Cut tra i denti e raccolse un accendino dal pavimento. «È stato dopo il mio compleanno.»

«Che è quando?»

«Il 10 maggio.»

«Viveva qui, vero?»

«Cazzo, se siete in gamba!»

«Che cos'è successo?»

«E a me lo chiede? Ha tagliato la corda. È uscita una sera e non è più tornata.» Stendendo la mano, batté la parte inferiore del palmo sul ginocchio, sollevandola poi in direzione della finestra. «Ma così era fatta Shellene. Ha lasciato metà della sua merda in camera.»

«Ce l'ha ancora?»

«No, sapete, ero tanto incazzato che l'ho buttata: c'era un po' di roba per i suoi numeri…»

«Era una spogliarellista?»

«Anche. Ma Shellene batte… e in situazioni estreme. Non l'avete forse presa mentre scopava con gli arabi a Portland Place?»

«Ha segnalato la sua scomparsa?»

Harrison fece schioccare sarcasticamente la lingua. «Scomparsa? Scomparsa di che? Degli scrupoli?»

«Ha lasciato la sua roba qui e lei non si è preoccupato?»

«E perché? Quando si è trasferita qui, è arrivata coi suoi trucchi, una radio portatile e un po' di siringhe… conoscete il tipo.»

«Non si è chiesto se le sia successo qualcosa?»

«No», rispose Harrison, scuotendo il capo. «Comunque, stavamo per mollarci. Non mi sono sorpreso più di tanto quando, quella sera, non è più tornata…» La sua voce si affievolì. Guardò prima Essex poi Caffery, poi ancora Essex. «Ehi», esclamò, improvvisamente agitato, «che volete dire?» Nessuno dei due rispose e nei suoi occhi balenò un lampo. Si accese la sigaretta e inalò profondamente il fumo. «Non credo che mi piacerà sentirlo, eh? Forza. È meglio che lo spariate in fretta. Che le è capitato? È morta o che?»

«Sì.»

«Sì, cosa?»

«È morta.»

«Cazzo.» Harrison sbiancò in volto e si lasciò cadere sul divano. «Dovevo immaginarlo. Dovevo immaginarlo nel momento che vi ho visti. Un'overdose del cazzo.»

«Probabilmente non si tratta di un'overdose. Probabilmente è stato un omicidio.»

Harrison fissò Jack senza battere ciglio. Poi, come se volesse proteggersi da quelle parole, portò le mani alle orecchie. Sugli avambracci bianchi spiccavano i pallidi segni degli aghi. «Oddio», ansimò. «Non posso…» Aspirò avidamente una boccata di fumo, gli occhi lucidi di lacrime. «Aspettate qui», aggiunse all'improvviso, balzando in piedi e scomparendo nel corridoio.

Caffery ed Essex si guardarono per un istante. Lo sentirono aggirarsi in camera, aprire alcuni cassetti. Essex fu il primo a parlare. «Non ne sapeva niente, vero?»

«No.»

Rimasero in silenzio per un po'. Al piano di sotto, qualcuno si era svegliato e aveva acceso lo stereo a tutto volume. Musica trance: Jack la sentiva spesso quand'era al CID e indagava nei locali notturni. Agitandosi sulla sedia, esclamò: «Che diavolo starà facendo lì dentro?»

«Non lo so…» La voce di Paul si affievolì. «Cristo, non penserai mica che…?»

«Merda!» Jack scattò in piedi e, giunto in corridoio, batté il palmo della mano sulla porta della stanza da letto. «Non ti fare, Barry!» urlò. «Mi senti? Non ti fare, cazzo! Ti arresterò!»

La porta si aprì e fece capolino la faccia immobile di Harrison. «Non mi potete arrestare per le anfetamine. Me le hanno prescritte. Prima della messa al bando.» Premendosi l'incavo del gomito, li oltrepassò, dirigendosi in soggiorno.

Jack lo seguì, imprecando sottovoce. «Dobbiamo parlarti. Non possiamo farlo se sei fuori.»

«Vi sarò più d'aiuto cosi che senza. Sarò più lucido.»

«Più lucido», borbottò Paul, scuotendo il capo.

Harrison si lasciò cadere sul divano e portò le ginocchia al petto, abbracciandosi le gambe, con un gesto stranamente infantile. «Ho passato gran parte del tempo con Shellene in queste condizioni». Reclinò la testa e, per un attimo, Jack pensò che stesse per scoppiare a piangere. Invece, contrasse la bocca e chiese: «D'accordo. Ditemi. Dov'era?»