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Bliss, nudo, comparve dalla cucina. Era una vista davvero oscena.

Rebecca rimase pietrificata e sbarrò gli occhi. Fortunatamente, però, lui non la stava guardando. Si avvicinò invece a Joni, canticchiando, palpandosi il piccolo pene gocciolante, rosso ciliegia, tra le cosce pallide. Si fermò al tavolo, bevve una sorsata di brandy dalla bottiglia e osservò Joni, assorto. Poi si pulì la bocca, posò la bottiglia e, con un movimento rapido – agile nonostante la corporatura -, salì sul tavolo, s'inginocchiò di fronte alla ragazza, le prese la testa per la nuca e s'insinuò nella sua bocca.

Rebecca giaceva immobile, atterrita, paralizzata, costretta a guardare Bliss che si muoveva contro il viso di Joni, spingendo sempre più violentemente.

Vedi? Non è più umano, non puoi ragionare con lui.

Joni reagì all'aggressione con violenti conati: la gola si contrasse, l'addome fu scosso da spasmi come se i muscoli fossero indipendenti dal sistema nervoso, ma lui non si fermò. Proseguì imperterrito, gemendo sommessamente, con gli occhi rovesciati all'indietro per il piacere. Quando terminò si ritrasse lentamente dalla bocca di Joni, fermandosi un attimo per prenderle il viso fra le dita molli e guardarla negli occhi. Poi, compiaciuto, le appoggiò delicatamente il mento sul petto, scese dal tavolo e uscì dalla stanza.

Rebecca giacque immobile per qualche istante. Poi sussurrò: «Joni?»

Silenzio. Joni sedeva di sbieco, nuda e coperta di lividi, il capo chino sul petto. Sul tavolo erano stati messi una fetta di torta intatta e un calice di champagne. Le aveva messo un tovagliolino colorato in grembo e le aveva tagliato i capelli. Sotto la frangia, al posto degli avvallamenti e delle curve naturali degli occhi, delle guance e della fronte, si estendeva un'unica tumefazione, screziata di sangue.

«Joni?» Dolorosamente, Rebecca si trascinò per qualche centimetro. «Joni?»

La ragazza voltò la testa. Sulle prime sembrò non riconoscerla, poi ebbe un fremito. «Per favore…» La sua voce era flebile, poco più di un sussurro. Una lacrima comparve nell'occhio sano. «Per favore, non guardare.»

«Va tutto bene, Joni.» Rebecca si umettò le labbra e si sollevò sui gomiti, trasalendo per il dolore alla testa e al collo. «Va tutto bene.»

Cercò l'estremità del nastro adesivo per liberarsi le gambe, ma Bliss era stato astuto e aveva confezionato due «manopole»: ogni volta che cercava di strapparle coi denti, esse non facevano che stringersi di più. Ansimando, stremata, Rebecca lasciò ricadere le mani.

Ci dev'essere qualcosa… Forza, Becky… C'è una via d'uscita: è tutto lì, a portata di matto. Pensa… Passò in rassegna ogni possibile oggetto utile: accanto al fornello a gas un porta attrezzi di silverplate, cui erano appesi pinze da camino, un attizzatoio, una paletta… Sul bancone di formica della cucina, nell'ombra, accanto alla tenda della finestra, un porta coltelli di legno. E sul tavolo? Da quell'angolazione non riusciva a vedere bene. Ma i coltelli… Devono esserci dei coltelli, magari una forchetta. Potresti prenderla dal tavolo e tornare qui in venti secondi. Lo sentiresti arrivare.

Fatto un respiro profondo, rotolò a pancia in giù, il volto contratto in una smorfia di dolore e di nausea. Appoggiò le mani sul pavimento e prese a trascinare la parte inferiore del corpo. Improvvisamente le apparve un'immagine di se stessa: mezza nuda, con gli occhi gonfi, pesta e sanguinante, strisciava per terra come un cane azzoppato da un'auto. Strinse i denti, e si sforzò di scacciare quel pensiero. Il tavolo distava solo un metro, era quasi arrivata…

Udì uno sciacquone. Una porta si chiuse.

Rimase impietrita, il cuore martellante e gli occhi spalancati.

Wendy Dellaney si considerava una persona degna di fiducia. Era orgogliosa della reputazione del St. Dunstan's, fiera di farne parte. Ed era infuriata, semplicemente infuriata, per il fatto che Malcolm Bliss avesse gettato del fango su tutti loro. Sedeva alla scrivania, bevendo una tazza di tè e facendo respiri profondi, mentre fissava il file di Malcolm Bliss. «Ho proprio intenzione di…» borbottò, alzando la cornetta del telefono.

«Wendy?» Lola Velinor alzò di scatto la testa. «Che cosa stai facendo?»

«Ho proprio intenzione di dirgli esattamente ciò che penso di lui. È un piccolo, sporco bastardo…»

«No, no, no.» L'altra si alzò e le tolse delicatamente il ricevitore di mano. «Non interferire. Non sai quanto sia grave la situazione. Lascia che ci pensi la polizia.»

Coi suoi occhietti spaventati, la donna si ritirò nell'angolo, quasi volesse scomparire dentro il suo vestito a fiori. Dieci minuti dopo, quando Lola Velinor lasciò l'ufficio per incontrare l'amministratore e informarlo della visita della polizia, l'episodio pareva dimenticato. Wendy attese finché la porta non si chiuse alle spalle della Velinor, poi sollevò di nuovo il telefono.

51

Bliss stava in piedi accanto a lei e la guardava con aria curiosa, come se avesse trovato un serpentello strisciante sul pavimento del soggiorno. «Sei sveglia?» mormorò.

«Sta… morendo…» Rebecca cercò di piegare le ginocchia, di far leva, ma il nastro la stringeva sempre più, impedendo al sangue di scorrere. Si rassegnò e cadde all'indietro, ansimando. «Se non la smetti, la ucciderai.»

«Sì.» Bliss, pensieroso, si ficcò le dita nel naso. «Già.» Appoggiò una mano sulle ginocchia e si piegò per vedere meglio Joni, la testa penzolante appoggiata sul petto. Poi, annuendo a se stesso, si raddrizzò. «Sì», ripeté, pulendosi le mani sulle cosce grasse. «Hai ragione. Ora tocca a te. Lo vuoi ancora?»

Tremando, percorsa da fitte di dolore in tutto il corpo, Rebecca alzò una mano verso di lui. «Non toccarmi.»

«Troppo tardi. L'ho già fatto.»

«Stai mentendo.»

«No», replicò lui con tono pacato. «Dopo averti sbattuta per tutta la cucina, mi sono scopato ciò che è rimasto. Eri incosciente.»

Non è vero.

«Guarda», esclamò lui sorridendo, schiacciandosi la punta del pene, umido e gonfio. «Vedi? Sono pronto. Taglierò il nastro adesivo, così potrai aprire le gambe per me.»

«Lo sanno, che mi trovo con te. Li ho chiamati prima di venire a casa tua: ho detto loro dove stavo andando. Sono per strada.»

«Sta' zitta.»

«È vero.» La voce di Rebecca tremava, ma lei tenne la testa alzata. «Prima telefoneranno e poi busseranno alla porta.»

«Ti ho detto di stare zitta», ribatté lui, passandosi la lingua sulle labbra. «Ora sdraiati buona buona e…»

Improvvisamente, il telefono in corridoio squillò. Bliss s'irrigidì e guardò, sconcertato, il vano della porta. Rebecca comprese di averlo in pugno.

Ora le credeva.

«Sono loro», sussurrò, approfittando di quel colpo di fortuna. «Sono loro al telefono.»

«Sta' zitta.»

«Su, dai, forza. Rispondi e vedrai.» Indicò la porta. «Sono loro. Vogliono trattare con te… Vogliono farti credere che sei al sicuro, ma, qualunque cosa accada, ti prenderanno, Malcolm…»

Avrebbe dovuto accorgersene prima: era Bliss, quello con la natura del predatore, non lei.

«Chiudi quel cazzo di bocca, puttana!» Un piede le affondò nello stomaco.

Rebecca rotolò di lato, ansimando, cercando di non vomitare. Sul soffitto i palloncini si spostarono, rimbalzando come se volessero avere una visione migliore dello spettacolo. Udì Bliss frugare nei cassetti di cucina, in quei cassetti contrassegnati con COLTELLI E FORBICI. Poi Rebecca diresse lo sguardo verso la cucina, appena in tempo per vedere un gancio da macellaio che spuntava dal soffitto, luccicante come se potesse pregustare il momento in cui sarebbe stato usato. Poi Bliss tornò con in mano un pezzo di filo elettrico flessibile e un rotolo di pellicola trasparente. Le fece scorrere un bisturi tra le cosce e il nastro adesivo si ruppe.

«Apri 'ste gambe, troia!»

Senza volerlo, Rebecca cominciò a piagnucolare.