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«Mamma?» Jenna, che indossava un vestitino di velluto, un paio di collant e scarpette di vernice – tutti rigorosamente neri -, scivolò giù dalla panca e si attaccò alla gamba di Marilyn, guardando preoccupata verso l'alto. «Mamma?»

Alla destra di Marilyn sedeva Dean, un po' a disagio per via della sua prima camicia da adulto. Era anche imbarazzato. I figli non potevano non notare le lacrime che bagnavano l'inginocchiatoio ai piedi della madre.

Jack ricordava quella sensazione: come Dean, aveva visto le lacrime della madre, l'aveva vista tremare mentre pregava Dio affinché Ewan venisse ritrovato.

«È una scusa idiota per non vivere la tua vita.»

Le parole gli giunsero con tale chiarezza che si toccò la fronte, tenendo la mano premuta contro il viso, preoccupato che gli altri potessero notare la sua espressione.

«Dovresti smetterla, e andare avanti.»

Ma non era questo ciò che, a loro modo, avevano continuato a dirmi le donne, le mie fidanzate, nel corso degli anni? Forse la loro furia era giustificata, forse sapevano meglio di lui che cosa serbare e che cosa abbandonare. Eccolo lì: trentaquattro anni. E ancora non sapeva come giocare al grande gioco della vita. Era come se, fino a quel momento, non avesse vissuto pienamente e fosse rimasto seduto, guardando nella direzione opposta, osservando, pianificando, cercando di fare ammenda, d'intrappolare il passato, mentre la vita, dietro di lui, continuava. Poteva continuare a vivere in quel modo, tirando avanti – abboccando all'esca di Penderecki, consentendogli di inventare nuovi modi per alimentare il tormento – e rimanendo solo e senza figli. Oppure…

Oppure poteva scegliere di abbandonare la battaglia.

Non appena il pastore riprese a parlare, Jack si protese bruscamente in avanti. La Kryotos si soffiò il naso e lo guardò. «Che c'è?» gli disse, mettendogli una mano sul braccio. «Che succede?» Jack stava fissando il vuoto, come se un fantasma si fosse levato improvvisamente dal transetto. «Jack?»

Qualche secondo dopo il suo volto si rasserenò. Si appoggiò allo schienale della panca e guardò la donna. «Marilyn…» sussurrò.

«Che cosa?» Jack aveva un'aria nuova, pulita. Lei attese, attese che tutto ciò che lo faceva soffrire si assestasse. «Dimmi.»

«Niente», rispose lui, sorridendo. «Una cosa assurda.»

Dopo la veglia funebre tornò a Londra, guidando rapidamente tra le soleggiate distese verdi del Suffolk. Arrivò a casa nel tardo pomeriggio: sopra la villetta, il cielo era screziato d'arancio.

Non entrava nella stanza di Ewan da due settimane, ma lo fece senza esitazione: mise tutti gli schedari vuoti in un sacco della spazzatura, lo legò e lo gettò nel cassonetto, in strada. Si strofinò le mani, tornò in casa, si tolse la giacca, prese un martello dal mobile sotto le scale e aprì la porta sul retro.

Il giardino, con l'avvicinarsi di luglio, aveva ritrovato il suo ritmo. Destato dal sole estivo, brulicava di vita: fiori dai colori brillanti punteggiavano le aiuole, e la «Rosa Mundi», piantata dalla madre vent'anni prima, si ergeva accanto alla staccionata coi suoi boccioli color rosa antico, aperti come mani di bimbo. Jack si chinò per passare sotto il salice, andò dritto al vecchio faggio e lasciò cadere il martello ai suoi piedi.

Fallo… Fallo… Non ci pensare. Ora o mai più.

Si arrotolò le maniche della camicia, fece un respiro profondo e afferrò la tavola più bassa, facendo leva sul tronco. Era debole e marcia. Si staccò dall'albero sollevando una nuvola di licheni che gli avvolse la camicia.

Nessuna esitazione.

Prese il legno, lo trasportò per qualche metro lungo il recinto e lo lasciò cadere al di là, nella fitta boscaglia. Si asciugò la fronte, tornò al faggio e staccò l'altra tavola.

Il martello giaceva inutilizzato nell'erba e le ombre si allungavano. Ben presto i palmi delle mani furono rossi e bagnati di sudore, e la camicia ricoperta di muschio. Dall'albero penzolava ormai una sola tavola. Mentre l'afferrava, facendo un passo indietro per stabilizzarsi, qualcosa lo indusse a fermarsi. Un elemento nuovo, mutevole, si era aggiunto al suo orizzonte e, in un lampo, aveva cambiato la serata.

Jack lasciò andare la tavola e sollevò lo sguardo.

Attirato fuori di casa da un vecchio istinto, da una consapevolezza antica – come se avesse fiutato il cambiamento di Jack -, Penderecki era apparso nel giardino al di là della trincea. Stava fermo dietro il recinto, con le bretelle e la maglia sporca, e masticava qualcosa, grattandosi la nuca. I suoi occhi lucidi osservavano attentamente, battendo le palpebre di tanto in tanto.

Jack trasse un respiro profondo e si raddrizzò. Di solito si allontanava o, peggio ancora, rientrava in casa. Quella sera rimase immobile e fissò Penderecki negli occhi, senza perdere il controllo.

Non passarono treni. Non si udì nessun rumore. Riflesse nelle finestre della casa, le chiare nuvole della sera fluttuavano sopra gli alberi. Un gabbiano, allontanatosi dal Tamigi, volò in circolo sopra di loro, osservandoli. E poi lo sguardo di Ivan Penderecki vacillò.

Fu poco più di un fremito, ma Jack lo notò.

L'ago della bilancia si era finalmente mosso.

Sorrise. Sorrise lentamente, provando un intenso sollievo. Arretrò di un passo e, con un unico movimento fluido, staccò la tavola dai ganci. La trasportò fino alla staccionata, si fermò per assicurarsi che Penderecki stesse ancora guardando e la lanciò a circa tre metri nella boscaglia. Lungo la «pista della morte». L'ultimo luogo in cui aveva visto Ewan.

La tavola toccò il suolo, rimbalzò due volte, riapparendo sopra l'erba e le primule gialle, fece un ultimo volteggio e sparì fra il verde. Jack si pulì le mani e alzò nuovamente lo sguardo.

Bene.

L'espressione di Penderecki era cambiata.

L'uomo esitò un attimo, tamburellando sul recinto, muovendo gli occhi da lucertola da una parte all'altra. Poi, improvvisamente, si tirò le bretelle, sputò nella trincea della ferrovia, si pulì la bocca e, senza sollevare gli occhi, si allontanò dalla staccionata. Si voltò, la schiena rigida e le braccia immobili lungo i fianchi, e s'incamminò verso casa. Poi si chiuse accuratamente la porta alle spalle.

Oltre la trincea della ferrovia, Jack – con indosso il secondo vestito da funerale della sua vita e la camicia bagnata di sudore – capì che era finita. Abbassò il capo e si appoggiò al recinto, le dita abbarbicate al filo. Il battito del suo cuore rallentò. La sera lo avvolse.

Improvvisamente passò, rombando, un treno di pendolari, stipato d'impiegati che rientravano tardi dall'ufficio. Jack lo fissò, sorpreso, come se il treno fosse l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di vedere su una ferrovia. Si sporse in avanti e guardò il giallo posteriore del treno rimpicciolire in lontananza. Quando scomparve sotto il ponte di Brockley, Jack continuò a guardare quel tenue scintillio, finché non seppe più se si trattava del cielo, della calura serale o di un gioco di luci.

Rientrò in casa, si tolse il vestito, fece una doccia e andò al Lewisham General.

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio tutto il personale dell'AMIP Thornton Health, soprattutto il commissario D. Reeve, il sergente S. Porter, l'agente M. Little, e anche il dottor Ian West del reparto di medicina legale del St. Thomas and Guy's, la dottoressa Elizabeth Wilson e Doug Stowton dei Forensic Science Services, nonché Ed Friedlander, patologo dell'University of Health Sciences, nel Kansas, che hanno dimostrato grande professionalità e mi hanno aiutata anche più del dovuto.

Un ringraziamento speciale va al detective capo Steve Gwilliam, per la pazienza e per la collaborazione dimostratemi.

Per l'amicizia e la fiducia ringrazio: Jimmy Brooks, Karen Catling, Rilke D, Linda Downing, Jon Fink, Jo Goldsworthy, Jane Gregory, Dave e Deborah Head, Sue e Michael Laydon, Michael Motley, Doreen Norman, Lisanne Radice e Sam Serafy. Grazie anche a Caroline Shanks, che anni fa mi ha salvato la vita, a Mairi Hitomi, che continua a farlo, alla mia meravigliosa, straordinaria famiglia, composta dalle persone più intraprendenti e colte che abbia mai incontrato. E, soprattutto, grazie a Keith Quinn.