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«Non vorrai perdere l’aereo?», domandò Alice, ormai al mio fianco. «Chissà che bella luna di miele, accampati in aeroporto ad aspettare il prossimo volo».

Edward si voltò appena per mormorare: «Vattene, Alice». Poi tornò a premere le labbra sulle mie.

«Bella, non vorrai salire sull’aereo vestita così?», insistette lei.

Non le badai granché. Anzi, in quel momento non m’importava.

Alice soffocò un ruggito. «Le dirò dove la porti, Edward. Perciò aiutami, faccio sul serio».

Lui restò impietrito. Poi alzò la testa e guardò in cagnesco la sua sorella preferita. «Per essere così piccola, sei un fastidio gigantesco».

«Non ho scelto l’abito da viaggio più perfetto per sprecarlo», ribatté lei, prendendomi per mano. «Vieni con me, Bella».

Cercai di resisterle, mentre mi alzavo in punta di piedi per baciarlo ancora una volta. Lei mi diede uno strattone impaziente, trascinandomi via da lui. Qualcuno degli ospiti ridacchiò. A quel punto gettai la spugna e mi lasciai guidare dentro la casa vuota.

Alice sembrava irritata.

«Scusa», dissi.

«Non è colpa tua, Bella». Sospirò. «A quanto pare non sei in grado di fare da sola».

Sorrisi della sua espressione afflitta e lei mi guardò torva.

«Grazie, Alice. È stato il matrimonio più meraviglioso che ci sia mai stato», le dissi sincera. «È andato tutto liscio. Sei la sorella più brava, più in gamba, più talentuosa del mondo».

Questo servì a placarla e si aprì in un grande sorriso. «Sono contenta che ti sia piaciuto».

Renée ed Esme ci aspettavano al piano di sopra. In tre mi aiutarono a uscire dal vestito e a entrare nel completo blu scuro che Alice aveva scelto per il viaggio. Fu un sollievo quando qualcuno mi tolse le forcine dai capelli, lasciandoli liberi sulle spalle, ondulati per via delle trecce, e risparmiandomi un mal di testa da fermagli. Mia madre non smise un attimo di piangere.

«Ti chiamo quando avrò capito dove vado», le promisi mentre la salutavo con un abbraccio. Il segreto della meta probabilmente la faceva impazzire: mia madre odiava i segreti... se non ne era a parte.

«Appena si allontana te lo dico», si fece beffe di me Alice, ridendo della mia espressione ferita: non era giusto che fossi l’ultima a saperlo.

«Devi venire a trovare me e Phil presto, il più presto possibile. Tocca a te venire al sud, in pieno sole, una volta tanto», disse Renée.

«Oggi non è piovuto», le ricordai, sviando la risposta.

«Per miracolo».

«È tutto pronto», disse Alice. «Le valigie sono in macchina. Jasper è andato a prenderla». Mi spinse verso le scale mentre Renée mi seguiva e tentava ancora di abbracciarmi.

«Ti voglio bene, mamma», sussurrai mentre scendevamo. «Sono davvero contenta che tu abbia Phil. Abbiate cura di voi».

«Anch’io ti voglio bene, tesoro mio».

«Ci vediamo, mamma. Ti voglio bene», ripetei con un nodo in gola.

Edward mi aspettava ai piedi dello scalone. Presi la mano che mi offriva ma rimasi a distanza, a osservare la piccola folla pronta a salutarci.

«Papà?», chiesi mentre lo cercavo con gli occhi.

«Da questa parte», mormorò Edward. Mi trascinò fra gli ospiti e la folla si divise per lasciarci passare. Trovammo Charlie appoggiato alla parete, lontano da tutti, quasi volesse nascondersi. Gli occhi arrossati ne spiegavano il motivo.

«Oh, papà!».

Lo abbracciai mentre altre lacrime scorrevano. Mi diede un buffetto sulla schiena.

«Vai, vai. Non vorrai perdere l’aereo».

Era difficile parlare di sentimenti con lui. Ci somigliavamo troppo: cercavamo sempre un appiglio nei dettagli più banali pur di evitare imbarazzanti dimostrazioni d’affetto. Ma non era il momento di essere impacciati.

«Ti vorrò bene per sempre, papà», dissi. «Non dimenticarlo».

«Nemmeno tu, Bells. Te ne ho sempre voluto e sempre te ne vorrò».

Ci scambiammo un bacio sulla guancia.

«Chiamami», disse.

«Presto», risposi, conscia che era tutto quello che potevo promettere. Soltanto una telefonata. A mio padre e mia madre non sarebbe più stato permesso vedermi: mi avrebbero trovata troppo diversa e molto, molto più pericolosa.

«Dai, muoviti», disse burbero. «Non fare tardi».

Passammo di nuovo fra due ali di ospiti. Edward mi strinse a sé mentre ci preparavamo a evadere.

«Sei pronta?», domandò.

«Sì», risposi e sapevo che era la verità.

Tutti applaudirono quando Edward mi baciò sulla porta di casa. Poi corremmo verso l’auto mentre si scatenava la tempesta di riso. Per lo più riuscimmo a schivare i colpi, ma qualcuno, probabilmente Emmett, lanciò con precisione impeccabile e i chicchi che rimbalzavano sulla schiena di Edward finirono addosso a me.

L’auto era decorata con altri festoni floreali e al paraurti posteriore erano attaccate con lunghi nastri una dozzina di scarpe: tutte firmate e a prima vista nuove di zecca.

Edward mi riparò dal riso mentre salivo in auto, poi si sedette accanto a me e partimmo, fra i saluti dal finestrino e i «Vi voglio bene» urlati verso la veranda, dalla quale le mie famiglie rispondevano sbracciandosi.

L’ultima immagine di cui volli conservare il ricordo fu quella dei miei genitori. Phil abbracciava teneramente Renée. Lei gli cingeva la vita con un braccio e l’altra mano era allacciata a quella di Charlie. Tanti tipi diversi d’amore, in armonia per un momento. Mi lasciò un’impressione di profonda speranza.

Edward mi strinse la mano.

«Ti amo», disse.

Posai la testa sul suo braccio. «È il motivo per cui siamo qui».

Mi baciò i capelli.

Mentre imboccavamo l’autostrada nera ed Edward procedeva a tutto gas, dalla foresta alle nostre spalle giunse un suono che coprì il ronzio del motore. Se l’avevo sentito io, senz’altro non era sfuggito a lui. Ma non disse niente, mentre l’eco si perdeva in lontananza. Neanch’io aprii bocca.

L’ululato straziante e doloroso si affievolì fino a svanire.

5

Isola Esme

«Houston?», domandai inarcando le sopracciglia quando raggiungemmo l’imbarco a Seattle.

«È soltanto una tappa», mi assicurò Edward con un sorrisetto.

Quando mi svegliò pensavo di essermi appena addormentata. Mi lasciavo trascinare da un terminal all’altro insonnolita, sforzandomi di ricordare come si riaprivano gli occhi. Capii cosa stava succedendo soltanto qualche minuto dopo, quando ci fermammo al banco dei voli internazionali, pronti al check-in.

«Rio de Janeiro?», domandai un po’ più trepidante.

«Un’altra tappa», rispose Edward.

Il volo verso il Sudamerica fu lungo ma comodo negli ampi sedili della prima classe, con le braccia di Edward a cullarmi. Passai tutto il tempo a dormire e mi svegliai stranamente lucida mentre giravamo in cerchio sopra la pista d’atterraggio, con la luce obliqua del sole al tramonto che filtrava dai finestrini.

Mi aspettavo che restassimo in aeroporto per prendere la coincidenza con il volo successivo. Invece salimmo su un taxi che ci portò fra le strade buie, affollate e piene di vita di Rio. Incapace di distinguere una parola delle istruzioni al tassista che Edward diede in portoghese, immaginai che stessimo cercando un albergo per una sosta. A quel pensiero, fui presa dall’attacco violento di qualcosa che somigliava a panico da palcoscenico. La folla che il taxi fendeva si diradò poco a poco mentre ci avvicinavamo a quello che sembrava il confine più occidentale della città, puntando dritto verso l’oceano.

Ci fermammo al porto.

Edward indicò al conducente la fila interminabile di yacht ormeggiati nell’acqua resa scura dalla notte. Lo fece fermare davanti a una barca più piccola della media, affusolata, costruita per essere più veloce che spaziosa. E tuttavia era lussuosa, più aggraziata delle altre. Vi balzò dentro con un salto agile, malgrado le valigie pesanti che portava. Le lasciò sul ponte e tornò indietro per aiutarmi a salire.

Lo guardai in silenzio, mentre si preparava a partire, sorpresa di vederlo così tranquillo e a proprio agio con la barca, perché non mi aveva mai parlato di suoi trascorsi nautici. Del resto, era bravo quasi in tutto.