Выбрать главу

Mentre puntavamo verso oriente, verso l’oceano aperto, ripassai a mente qualche nozione di geografia. Per quanto ricordavo, non c’era granché a est del Brasile... a parte l’Africa.

Ma Edward proseguì a tutta velocità in quella direzione, finché le luci di Rio non s’affievolirono fino a svanire alle nostre spalle. Sul suo volto c’era il sorriso familiare ed entusiasta che solo la velocità sapeva produrre. La barca si tuffava fra le onde spruzzandomi addosso la schiuma del mare.

Alla fine la curiosità che avevo soffocato così a lungo ebbe la meglio.

«Manca ancora molto?», domandai.

Non era da lui dimenticare che fossi umana, ma forse aveva stabilito di passare un po’ di tempo su quella piccola imbarcazione.

«Solo un’altra mezz’ora». Il suo sguardo cadde sulle mie mani, ben salde al sedile, e sorrise.

Be’, pensai fra me, tutto sommato è un vampiro. Magari mi sta portando ad Atlantide.

Venti minuti dopo, sopra al rombo del motore udii la sua voce che mi chiamava.

«Bella, guarda là». Indicò un punto davanti a sé.

Sulle prime vidi soltanto la notte e la scia bianca della luna sull’acqua. Ma perlustrai con lo sguardo nella direzione che mi aveva indicato fino a individuare una sagoma bassa e nera che spezzava la luce lunare sulle onde. Più socchiudevo gli occhi nel buio, più la sagoma diventava dettagliata. Si trasformò in un triangolo rozzo, i cui lati irregolari affioravano dalle onde. Ci avvicinammo e notai che il profilo era morbido e dondolava mosso da una brezza leggera.

Poi i miei occhi misero bene a fuoco i particolari: dall’acqua di fronte a noi spuntava un isolotto coperto da palme ondeggianti, con una spiaggia che scintillava chiara alla luce della luna.

«Dove siamo?», mormorai meravigliata mentre Edward cambiava direzione e girava attorno all’isola, verso nord.

Mi sentì malgrado il rombo del motore e si apri in un grande sorriso luminoso.

«Questa è l’Isola Esme».

La barca rallentò di colpo e si avvicinò con precisione a un piccolo molo di legno quasi bianco nella luce lunare. Quando il motore tacque, calò un silenzio profondo. Si sentivano soltanto le onde, che s’infrangevano leggere contro la barca, e il fruscio della brezza fra le palme. L’aria era afosa, umida e profumata, come la scia di vapore di una doccia calda.

«Isola Esme?». Parlavo piano, ma la mia voce risultava fin troppo chiassosa nella tranquillità della notte.

«Un regalo di Carlisle: Esme ha proposto di prestarcela».

Un regalo. Chi può scegliere un’isola come regalo? Aggrottai le sopracciglia. Non avevo capito che la generosità estrema di Edward era un tratto acquisito.

Posò le valigie sul molo e risalì sfoggiando il suo sorriso perfetto. Anziché offrirmi la mano, mi sollevò prendendomi in braccio.

«Non dovresti aspettare fino alla soglia di casa?», domandai emozionata mentre saltava agile dalla barca.

«Lo sai che sono pignolo».

Senza mollare la presa su di me, con una mano afferrò entrambe le maniglie delle grosse valigie e percorse il molo, incamminandosi lungo un sentiero di sabbia chiara che correva attraverso la scura vegetazione. Per un tratto fu buio pesto, ma a un certo punto intravidi una luce calda in lontananza. Più o meno quando capii che la luce era una casa — i due quadrati perfetti e luminosi erano ampie finestre ai lati della porta d’ingresso — ebbi un attacco di panico più impetuoso di prima, peggio di quando pensavo che la nostra meta fosse un albergo.

Il battito del mio cuore contro il torace era udibile, il mio respiro sembrava incastrato in gola. Sentivo gli occhi di Edward su di me, ma rifiutavo di incrociarli. Guardavo dritto, senza vedere nulla.

Da parte sua, era davvero strano che non mi chiedesse a cosa stessi pensando. Forse il nervosismo improvviso aveva colto anche lui.

Posò le valigie sotto la grande veranda e aprì le porte, che non erano chiuse a chiave.

Edward mi fissò e attese che lo guardassi prima di oltrepassare la soglia.

Mi trasportò in giro per casa, in silenzio come me, accendendo le luci una dopo l’altra. Avevo l’impressione che l’edificio fosse troppo grande per un’isola così piccola, e stranamente familiare. Mi ero abituata alle tonalità chiare predilette dai Cullen; mi sentivo a casa. Ma non riuscivo a concentrarmi sui dettagli. Le pulsazioni violente che avvertivo nelle orecchie rendevano tutto un po’ sfocato.

Poi Edward si fermò e accese l’ultima luce.

La stanza era grande e bianca, chiusa da una vetrata: l’arredamento standard dei miei vampiri. All’esterno, la luna brillava sulla sabbia bianca e, a pochi metri dalla casa, scintillava sulle onde. Ma le notai a malapena. Ad attirare la mia attenzione era il letto bianco e assolutamente enorme al centro della camera, sul quale incombevano le nuvole gonfie di una zanzariera.

Edward mi lasciò scendere.

«Vado... a prendere le valigie».

La stanza era troppo calda, l’aria più stagnante rispetto alla notte tropicale. Sentii un velo di sudore addensarsi dietro al collo. Lentamente avanzai fino a toccare quel soffice baldacchino. Chissà perché, avevo il bisogno di assicurarmi che fosse tutto vero.

Non udii tornare Edward. All’improvviso, il suo dito gelido mi sfiorò la nuca e spazzò via il velo di sudore.

«Fa un po’ caldo qui», si scusò. «Pensavo... fosse meglio così».

«Pignolo», mormorai sottovoce e lui ridacchiò. Fu un suono nervoso, raro in Edward.

«Mi sono sforzato di rendere tutto... più facile», confessò.

Deglutii rumorosamente, ma non osavo guardarlo. C’era mai stata una luna di miele come la nostra?

Conoscevo la risposta. No. Certo che no.

«Mi chiedevo», disse Edward piano, «se... prima... ti andasse un bagno di mezzanotte con me?». Fece un sospiro e quando riprese a parlare sembrava più a suo agio. «L’acqua è molto calda. Questo è il genere di spiaggia che ti piace».

«Bell’idea». La mia voce si ruppe.

«Immagino che ti servano un paio di minuti da umana... il viaggio è stato lungo».

Annuii rigida. Faticavo a sentirmi umana; forse qualche minuto di solitudine mi avrebbe fatto comodo.

Le sue labbra mi sfiorarono il collo, appena sotto l’orecchio. Ridacchiò e il suo respiro freddo scatenò un brivido sulla mia pelle surriscaldata. «Non metterci troppo, signora Cullen».

Ebbi un fremito al suono del mio nuovo nome.

Le labbra scesero lungo il collo, fino alla punta della spalla. «Ti aspetto in acqua».

Mi oltrepassò diretto alla portafinestra che dava sulla spiaggia, si scrollò di dosso la camicia che cadde sul pavimento e uscì nella notte illuminata dalla luna. Dietro di lui, l’aria salata e afosa turbinò nella stanza.

La mia pelle aveva preso fuoco? Guardai bene per controllare. No, non bruciava nulla. Nulla di visibile, se non altro.

Mi ricordai di respirare e arrancai verso la gigantesca valigia che Edward aveva posato e aperto su una cassettiera bianca. Doveva essere la mia, perché sopra c’era una borsa di cosmetici, ma era piena di indumenti troppo rosa che non riconobbi. Mentre frugavo fra le pile ben ordinate in cerca di qualcosa di comodo e familiare, magari un paio di pantaloni da ginnastica, mi accorsi di avere fra le mani un’assurda quantità di pizzi trasparenti e raso striminzito. Lingerie. Lingerie molto lingeri-osa, con etichette in francese.

Non sapevo né come né quando, ma un giorno Alice me l’avrebbe pagata.

Rassegnata, andai in bagno e sbirciai dai finestroni che si affacciavano sulla stessa spiaggia delle portefinestre. Non lo vidi: probabilmente era sott’acqua e non si preoccupava di tornare a riprendere aria. La luna era quasi piena e la sabbia brillava sotto la sua luce. Un piccolo movimento attirò la mia attenzione: appesi al tronco curvo di una delle palme che delimitavano la spiaggia, i vestiti di Edward ciondolavano alla brezza leggera.