Restai in attesa, ma lui non rise con me. Pian piano, penetrando fra i tanti strati di beatitudine che riempivano con dolcezza il mio cuore, giunse la consapevolezza di un’atmosfera diversa, al di fuori della mia sfera luccicante di felicità.
Aprii gli occhi: la prima cosa che vidi fu la pelle chiara, quasi argentea della sua gola, l’arco del mento al di sopra del mio viso. La sua mascella era tesa. Cercai di appoggiarmi a un gomito per guardarlo in volto.
Fissava il baldacchino soffice sopra di noi senza ricambiare lo sguardo con cui indagavo i suoi lineamenti contratti. La sua espressione fu uno shock che mi fece sobbalzare.
«Edward», dissi con una leggera esitazione nella voce, «che c’è? Che c’è che non va?».
«E te lo chiedi?», rispose duro, cinico.
Il primo istinto, prodotto di una vita intera di insicurezze, fu di chiedermi in cosa avessi sbagliato. Ripensai a tutto ciò che era accaduto, ma non riuscii a trovare nemmeno una nota di amarezza fra i ricordi. Tutto era stato più semplice di quanto mi aspettassi: ci eravamo adattati l’uno all’altra come frammenti fatti apposta per combaciare e unirsi. Ciò mi aveva dato una soddisfazione segreta: eravamo compatibili anche fisicamente. Fuoco e ghiaccio, che chissà come esistevano affiancati senza distruggersi a vicenda. L’ennesima prova di quanto gli appartenessi.
Non riuscivo a pensare al motivo di una reazione del genere, tanto severa e fredda. Mi ero persa qualcosa?
Con le dita lisciò i solchi di preoccupazione sulla mia fronte.
«A cosa pensi?», sussurrò.
«Sei arrabbiato. Non capisco. Ho...?». Non riuscii a finire.
Mi guardò torvo. «Senti molto dolore, Bella? Voglio la verità, non fare finta che non sia nulla».
«Dolore?». La mia voce uscì più acuta del solito, perché la parola mi colse di sorpresa.
Alzò un sopracciglio, le labbra tese.
Verificai subito stiracchiandomi per bene, tendendo e contraendo i muscoli. Mi sentivo indolenzita e parecchio dolorante, in effetti, ma soprattutto avevo la sensazione strana che tutte le articolazioni si fossero scardinate, trasformandomi in qualcosa a metà fra un essere umano e una medusa. Non era una sensazione spiacevole.
Poi sentii montare la rabbia, perché Edward stava gettando delle ombre sopra la più perfetta delle mattine con le sue deduzioni pessimiste. «Perché ti sembra che dovrei star male? Non mi sono mai sentita meglio».
Chiuse gli occhi. «Piantala».
«Piantala cosa?».
«Piantala di fingere che io non sia stato un vero mostro».
«Edward!», sibilai ormai infuriata. Stava trascinando i miei ricordi vividi nell’oscurità, per macchiarli. «Non dirlo mai più».
Non riaprì gli occhi, sembrava che non volesse vedermi.
«Guardati, Bella. E dimmi che non sono un mostro».
Ferita, sorpresa, lo assecondai in modo automatico e rimasi sbigottita.
Cosa mi era successo? Non riuscivo a dare un senso alla neve bianca e morbida attaccata alla mia pelle. Scossi la testa e una cascata di bianco svolazzò dai capelli.
Afferrai un frammento bianco e morbido fra le dita. Era un brandello di imbottitura.
«Perché sono coperta di piume?», domandai, confusa.
Sbuffò impaziente. «Ho morso un cuscino. O forse più d’uno. Ma non è di questo che parlo».
«Hai... morso un cuscino? E perché?».
«Guarda, Bella!». Fu quasi un ruggito. Mi prese la mano, con grande circospezione, e mi tirò il braccio. «Guarda qui».
E finalmente vidi a cosa si riferiva.
Sotto lo strato di piume, grossi lividi violacei iniziavano a fiorire sulla pelle chiara del mio braccio. Seguii il tracciato che disegnavano, fino alla spalla e poi giù fra le costole. Liberai una mano per fare pressione su una macchia all’altezza dell’avambraccio sinistro: al mio tocco svanì e poi riapparve. La sentivo quasi pulsare.
Con leggerezza, come se nemmeno mi toccasse, Edward sfiorò i lividi del mio braccio, uno alla volta, mostrandomi che combaciavano con la sagoma delle sue dita.
«Oh», dissi.
Cercai inutilmente nella memoria, ma non ricordavo nessun dolore. Non riuscivo a evocare momenti in cui la sua stretta era stata troppo forte, le mani troppo violente su di me. Ricordavo soltanto il desiderio di farmi stringere più forte e il piacere quando mi aveva esaudito...
«Mi... dispiace, Bella, davvero», sussurrò mentre fissavo i lividi. «Avrei dovuto saperlo. Non era il caso di...». A bocca chiusa, brontolò qualcosa, disgustato. «Non trovo le parole per dirti quanto mi dispiaccia».
Si coprì il volto con le mani e restò perfettamente immobile.
Ne fui totalmente sbalordita e cercai di valutare, ora che ne capivo il motivo, quanto grande fosse la sua tristezza. Ma era troppo agli antipodi di come mi sentivo e non riuscivo a immaginarla.
La sorpresa svanì piano e niente occupò il suo posto. Vuoto. La mia mente era vuota. Non sapevo cosa dire. Come facevo a spiegarglielo nel modo migliore? Era possibile renderlo felice com’ero io, anzi com’ero stata io fino a un istante prima?
Gli toccai un braccio, ma lui non reagì. Gli strinsi il polso con le dita e cercai di strappargli una mano dal viso ma, con tutta la buona volontà, avrei avuto miglior successo se fosse stato una statua.
«Edward».
Non si mosse.
«Edward?».
Niente. D’accordo, era il momento del monologo.
«A me non dispiace, Edward. Io sono... non riesco neanche a dirtelo. Sono talmente felice. E questo non offusca la mia felicità. Non prendertela. No. Sto davvero b...».
«Non pronunciare la parola "bene"». La sua voce era di ghiaccio. «Se ti sta a cuore la mia salute psichica, non dirmi che stai bene».
«Ma è così», sussurrai.
«Bella». Fu quasi un lamento. «Basta».
«No. Tu basta, Edward».
Spostò un braccio. I suoi occhi dorati mi guardavano con timore.
«Non rovinare tutto», dissi. «Io. Sono. Felice».
«Ho già rovinato tutto», sussurrò.
«Piantala», sbottai.
Lo sentii digrignare i denti.
«Uffa! Perché non sei ancora capace di leggermi nel pensiero? È davvero fastidioso essere una muta mentale!».
Rilassò un poco lo sguardo, distratto suo malgrado.
«Questa è nuova. Sei sempre stata felice che non ti leggessi nel pensiero».
«Non oggi».
Mi studiò. «Perché?».
Alzai le mani, frustrata e colta da un dolore alla spalla che ignorai. Lo colpii al petto con un violento schiocco. «Perché capiresti quanto tutta questa angoscia sia completamente inutile se solo potessi vedere come sto adesso! O cinque minuti fa, ecco. Ero perfettamente felice. Totalmente e completamente beata. Adesso... ecco, più o meno mi hai fatto incazzare».
«È giusto che tu ce l’abbia con me».
«Be’, ora è così. Ti senti meglio?».
Sospirò. «No. Non c’è niente che potrebbe farmi sentire meglio, adesso».
«Ecco», sbottai. «Ecco perché sono così arrabbiata. Stai uccidendo la mia euforia, Edward».
Alzò gli occhi al cielo e scosse la testa.
Sbuffai. Iniziavo a sentirmi indolenzita, ma non stavo poi così male. Più o meno come il giorno dopo aver sollevato dei pesi. Lo avevo fatto assieme a Renée durante un suo periodo di ossessione per il fitness. Sessantacinque allungamenti con quattro chili per mano. Non ero riuscita a camminare per un giorno intero. Il dolore che provavo in quel momento era niente al confronto.
Ingoiai la mia irritazione e cercai di addolcire il tono. «Sapevamo che stavamo rischiando. Lo davo per scontato. E invece, be’, è stato molto più facile di quanto pensassi. E questo non è niente, davvero». Feci scorrere le dita lungo il suo braccio. «Secondo me, per essere la prima volta, senza sapere cosa ci aspettava, ce la siamo cavata alla grande. Con un po’ di esercizio...».
Di colpo lo vidi illividire e la parola mi si troncò in gola.