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«La prova del cuoco», precisò sfoderando il mio sorriso sghembo preferito.

Fui felice di vederlo, felice che stesse tornando pian piano in sé.

«Dove hai preso le uova?».

«Ho chiesto ai domestici di riempire il frigo. Una novità, in questa casa. Dovrò chiedere loro di occuparsi anche delle piume...». S’interruppe, gli occhi fissi su un punto sopra la mia testa. Tacqui, non volevo dire nulla che potesse turbarlo di nuovo.

Mangiai tutto, malgrado avesse cucinato per due.

«Grazie», dissi. Mi chinai sul tavolino per baciarlo. Lui restituì il bacio automaticamente, ma poi s’irrigidì e si allontanò.

Strinsi le mascelle e la domanda che posi ebbe il tono di un’accusa. «Non mi toccherai più finché staremo qui, vero?».

Prima di rispondere abbozzò un sorriso e mi accarezzò una guancia. Le dita esitarono dolcemente sulla mia pelle e non potei fare a meno di appoggiarmi al palmo della sua mano.

«Lo sai che non è quello che vorrei».

Sospirò e allontanò la mano. «Lo so. Ma è così». In silenzio, sollevò lievemente il capo. Poi riprese a parlare con fermezza e decisione. «Non farò l’amore con te finché non ti sarai trasformata. Non voglio farti del male, mai più».

6

Distrazioni

Il mio svago divenne la priorità numero uno sull’Isola Esme. Ci dedicavamo all’osservazione dei fondali (io nuotavo con il boccaglio mentre Edward si beava della capacità di restare senza ossigeno a piacimento). Esploravamo la piccola giungla che circondava il basso picco roccioso. Andavamo a vedere i pappagalli che vivevano fra il fogliame del capo meridionale dell’isola. Guardavamo il tramonto dalle rocce della baia occidentale e nuotavamo assieme alle focene che giocavano nelle sue acque calde e basse. Io, perlomeno: quando Edward entrava in acqua, le focene si dileguavano come se fosse arrivato uno squalo.

Sapevo cosa stava succedendo. Edward cercava di tenermi occupata, di distrarmi, per impedirmi di assillarlo continuamente a proposito del sesso. Ogni volta che proponevo di prendercela più comoda e di approfittare dei milioni di DVD e del maxischermo al plasma, mi attirava fuori casa grazie a parole magiche come "barriera corallina", "grotte subacquee" oppure "tartarughe marine". Non ci fermavamo mai, mai, mai, e quando finalmente giungeva il tramonto mi ritrovavo affamata ed esausta.

Ogni sera, finito di cenare, avevo la testa che ciondolava sul piatto; una volta, persino mi addormentai a tavola ed Edward dovette portarmi a letto in braccio. Un po’ era colpa sua, che cucinava sempre troppo per una sola persona, ma anch’io ero affamatissima dopo aver trascorso la giornata a nuotare o ad arrampicarmi, e spazzavo via tutto. Dopodiché, sazia e sfiancata, faticavo a tenere gli occhi aperti. Di sicuro faceva parte del suo piano.

Esausta com’ero, i miei tentativi di persuasione non funzionavano granché. Ma non mi diedi per vinta. Ci provai con la razionalità, con le suppliche e con il broncio ma fu tutto inutile. Di norma, però, prima ancora che riuscissi a metterlo alle strette, il sonno aveva la meglio. E da quei miei sogni che sembravano così veri — erano perlopiù incubi, forse resi ancor più vividi dai colori troppo accesi dell’isola — mi risvegliavo stanca persino dopo lunghissime dormite.

Circa una settimana dopo il nostro sbarco sull’isola, decisi di cercare un compromesso. Aveva già funzionato, fra noi.

Mi ero trasferita nella camera blu. Mancava ancora un giorno all’arrivo dei domestici e la stanza bianca era sepolta sotto una nevicata di piume. Quella blu era più piccola, le proporzioni del letto più ragionevoli. Le pareti erano di tek scuro e la biancheria di sfarzosa seta blu.

Per dormire mi ero abituata a indossare alcuni capi della collezione di lingerie che non erano poi così striminziti, in confronto a certi bikini che Alice mi aveva infilato in valigia. Forse aveva visualizzato il motivo per cui avrei desiderato avere certi indumenti: a quel pensiero, imbarazzata, trasalii.

Preoccupata che il fatto di esibire troppo del mio corpo non mi aiutasse affatto, ma pronta ad affidarmi a qualsiasi rimedio, all’inizio mi ero mossa in modo prudente, con innocenti completi di raso bianco. Edward non sembrava accorgersi di niente, come se portassi i soliti pantaloni da ginnastica malconci che infilavo a casa.

I lividi stavano migliorando — alcuni erano divenuti giallastri, altri scomparsi — perciò una sera, mentre mi preparavo in bagno, scelsi uno dei completi che più mi spaventava: nero, di pizzo, m’imbarazzava già senza indossarlo. Badai a non guardarmi allo specchio prima di tornare nella camera da letto. Non volevo perdere la calma.

Ebbi la soddisfazione di vedere Edward sgranare gli occhi per un secondo, prima che riprendesse il controllo di sé.

«Che ne pensi?», domandai con una giravolta per farmi ammirare da ogni angolazione.

Si schiarì la gola. «Sei bellissima. Come sempre».

«Grazie», risposi con una punta di acidità.

Ero troppo stanca per rinunciare a sdraiarmi subito su quelle coltri morbide. Edward mi abbracciò e mi strinse a sé, come al solito: faceva troppo caldo per dormire lontana dal suo corpo fresco.

«Ti propongo un patto», dissi assonnata.

«Non ho intenzione di stringere patti con te», rispose.

«Non sai neppure cosa sto per offrirti».

«Non importa».

Sospirai. «Vai a quel paese. E dire che volevo... Non fa nulla».

Alzò gli occhi al cielo.

Io chiusi i miei e lasciai il discorso in sospeso. Sbadigliai.

Gli ci volle soltanto un minuto, troppo poco per farmi perdere i sensi.

«Va bene. Cosa vuoi?».

Contrassi la mascella per un secondo, trattenendo un sorriso. Se c’era una cosa a cui non sapeva resistere, questa era l’occasione di farmi un regalo.

«Ecco, pensavo... so che la faccenda di Dartmouth dovrebbe essere soltanto una copertura, ma, sinceramente, non credo che un semestre di college mi ucciderà», dissi, con le stesse parole pronunciate da lui tanto tempo prima, quando aveva cercato di persuadermi a non diventare una vampira. «Scommetto che Charlie andrà matto per gli aneddoti su Dartmouth. Certo, sarà imbarazzante se non riesco a tenere il passo di quei secchioni. Però... diciotto, diciannove anni. Non c’è una differenza enorme. Nel giro di dodici mesi non mi verranno le zampe di gallina».

Per qualche istante rimase in silenzio. Poi, a voce bassa, disse: «Preferisci aspettare. Preferisci restare umana».

Trattenni il fiato, in attesa che l’offerta giungesse a destinazione.

«Perché mi fai questo?», disse a denti stretti, improvvisamente rabbioso. «Non è già abbastanza difficile?». Afferrò dal mio fianco un lembo del pizzo di guarnizione che sporgeva. Per un istante pensai che volesse strapparlo via. Poi la sua mano si rilassò. «Non importa. Non stringerò alcun patto con te».

«Voglio andare al college».

«No, invece no. E non c’è niente per cui valga la pena di rischiare ancora la tua vita. Di farti del male».

«Ma io ci voglio andare. Be’, non è esattamente il college che m’interessa... Voglio restare umana ancora per un po’».

Chiuse gli occhi e sbuffò dal naso. «Mi stai facendo impazzire, Bella. Non ne abbiamo già discusso un milione di volte, quando m’imploravi di trasformarti in vampira il più in fretta possibile?».

«Sì, ma... ecco, ora ho un motivo in più per restare umana».

«Quale?».

«Indovina», dissi e mi sollevai dai cuscini per baciarlo.

Contraccambiò il bacio, ma capii che non intendeva darmela vinta. Più che altro sembrava attento a non ferire i miei sentimenti, ma manteneva un totale e irritante controllo di sé. Con delicatezza, dopo un istante mi allontanò e mi cullò sul suo petto.

«Sei così umana, Bella. Schiava dei tuoi ormoni». Ridacchiò.

«Questo è il punto, Edward. Questo aspetto dell’essere umana mi piace. Non sono ancora disposta a perderlo. Non voglio aspettare chissà quanti anni da neonata assetata di sangue, prima che qualcosa di tutto questo riaffiori».