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Lona non sapeva chi fosse il “padre”; unicamente, che il donatore era uno solo, come una sola era la donatrice. Questo, lo aveva capito. I medici erano stati molto gentili, spiegandole il progetto, a passo a passo. Le parlavano come se fosse una bambina. Lei riusciva a seguire buona parte di quel che dicevano. La trattavano con una certa degnazione, perché era praticamente priva di istruzione, e restia ad accogliere idee spiacevoli; ma la materia prima dell’intelligenza c’era.

La parte di Lona nel progetto era semplice, e terminava sin dalla prima fase. Le facevano uscire dalle ovaie alcune centinaia di uova feconde ma immature. Poi, per conto loro, Lona poteva anche piombare nelle tenebre dello spazio; ma bisognava che sapesse. Seguì dunque i passi successivi.

Le uova venivano fatte maturare in ovaie artificiali. Una donna poteva maturare solo due o tre uova per volta, nella serra segreta del suo grembo; le macchine potevano far lo stesso, come fecero, a centinaia per volta. Poi venne il processo, impegnativo ma, essenzialmente, non nuovo, della microiniezione nelle uova per rinforzarle. E poi la fecondazione. Un solo donatore. Nelle fasi precedenti si erano perse molte uova. Molte non risultarono feconde o fecondate. Ma cento lo furono.

Venne ora un’altra fase. Si era parlato di trovare un centinaio di donne, che portassero a termine i cento zigoti. Cuculi in ventri altrui. In ultima analisi, tuttavia, si ritenne che la cosa era eccessiva. Le uova fecondate furono messe in grembi artificiali, salvo dodici per i quali si ricorse ad altrettante volontarie. Alcuni di questi tentativi fallirono, ma otto ventri lisci non tardarono a gonfiarsi.

— Includete anche me fra le volontarie — aveva detto Lona. E, toccandosi il ventre piatto: — Fate portare a me uno dei bambini.

— No.

Glielo dissero, però, con maggiore gentilezza. Le spiegarono che, nel quadro dell’esperimento, non era necessario che lei si prendesse la seccatura della gravidanza. Si aveva da molto tempo la dimostrazione che era possibile prendere un uovo dal corpo di una donna, fecondarlo altrove e ricollocarlo dentro di lei per il periodo solito di gestazione. Perché ripetere? La cosa era stata verificata e confermata. Si poteva risparmiarle il fastidio. La cosa interessante consisteva nel sapere fino a qual punto fosse possibile la gestazione di un embrione estraneo da parte di una madre umana; e, per questo, non avevano bisogno di Lona.

Chi aveva bisogno di Lona, adesso?

Nessuno.

Lona rimase a guardare quel che accadeva.

Le otto madri volontarie diedero un buon risultato. La loro gravidanza venne accelerata artificialmente. I loro corpi avevano accettato gli intrusi, li avevano alimentati di sangue, avvolti in calde placente.

Dal punto di vista medico, questo era un miracolo scientifico. Ma ancora più eccitante era il fatto di far completamente a meno della maternità. Una fila di scatole lucide. In ciascuna di esse nuotava uno zigote. Il ritmo della suddivisione cellulare mozzava il fiato. Lona aveva vacillato. La crescita veniva indotta nel citoplasma corticale degli zigoti che si moltiplicavano, poi nei principali organi assiali. In sei mesi, cento neonati che agitavano braccia e gambe.

Una parola nuova, mai usata prima in un contesto umano, fu sulle labbra di tutti: “centupli”.

Perché no? Uno il padre, una la madre. Il resto era secondario. Le gestanti, i grembi di metallo… Sì, avevano fornito calore e alimento. Ma non erano le madri dei bambini.

Chi era la madre?

Il padre non aveva importanza. La fecondazione artificiale era argomento trito da barzellette. Si sapeva che, almeno in sede teorico-statistica, un solo maschio potrebbe fecondare in due pomeriggi tutte le donne del mondo. Che ne avesse fatti cento, non era niente di speciale.

Ma la madre…

Il suo nome non doveva essere comunicato. “Donatrice anonima”: questo era il suo posto nella storia della medicina. Ma la notizia era troppo ghiotta. Tanto più che non aveva ancora compiuto i diciassette anni, che non era sposata e che (così giuravano i medici) era tecnicamente vergine.

Due giorni dopo il centuplo parto simultaneo, il nome e le notizie personali di Lona erano di dominio. Lei si trovò, esile e spaventata, di fronte ai flash.

— Metterà nome lei stessa ai bambini?

— Che impressione le ha fatto quando le hanno tolto le uova?

— Che impressione le fa, di essere la madre della più vasta famiglia di tutta la storia umana?

— Vuole sposarmi?

— Venga a stare con me, come amante.

— Mezzo milione per diritti esclusivi sulla sua storia!

— Mai stata con un uomo?

— Qual è stata la sua reazione quando le hanno parlato di questo esperimento?

— Ha conosciuto il padre?

Così per un mese. I proiettori le avevano arrossato la carnagione bionda e delicata. Aveva gli occhi smarriti, stanchi, arrossati. Domande. Dottori al suo fianco, per guidarla nelle risposte. Il suo momento di grande fama, abbagliante sbalorditivo. I dottori odiavano tutto ciò quasi quanto l’odiava lei. Non avrebbero assolutamente voluto comunicarne il nome: salvo che uno di loro, per una certa somma, l’aveva rivelato, e si erano spalancate le cataratte. Adesso cercavano di prevenire altre topiche dandole l’imbeccata su quel che doveva dire. In realtà, diceva pochissimo. Il suo silenzio nasceva in parte dal timore, in parte dall’ignoranza. Che cosa mai aveva da dire al mondo? E il mondo, che cosa voleva da lei?

In breve era diventata una delle meraviglie del mondo. Le macchine musicali cantavano una canzone a suo riguardo. Tremolio di accordi profondi: il lamento della madre dei centupli. La suonavano dappertutto. Per Lona, era insopportabile. Vieni a fare un bambino con me, tesoro, vieni a farne altri cento. Le sue amiche, che già non erano molte, sentivano che ogni discorso sulla “cosa” la imbarazzava e perciò si misero a parlare di altro, poi della prima cosa che capitava e infine smisero semplicemente di parlare. Rimase sola. Degli sconosciuti le chiedevano che impressione facesse, l’aver tutti quei bambini. Che poteva rispondere? Non lo sapeva davvero! Perché avevano fatto una canzone su di lei? Perché chiacchieravano e spiavano? Che cosa volevano?

Per certuni, tutta la faccenda era blasfema. Invettive tuonarono dai pulpiti. Lona sentì odor di zolfo nelle narici. I neonati piangevano, si stiracchiavano, rigurgitavano. Poté andarli a vedere, una volta e pianse. Ne prese uno in braccio. Le fu tolto, per restituirlo al suo ambiente asettico. Non ebbe il permesso di rivederli.

Centupli. Una centuria di germani partecipi dello stesso gruppo di codoni. Che aspetto avrebbero avuto? Come sarebbero cresciuti? Poteva stare al mondo un essere che aveva cinquanta fratelli e cinquanta sorelle? Anche questo rientrava nell’esperimento, ed era una parte destinata a durare tutta una vita. Erano infatti intervenuti anche gli psicologi. Si sapeva parecchio sui gemelli, fino a cinque; c’era stato modo di esaminare dei casi di sei gemelli e, una trentina d’anni prima, ce n’erano stati, per breve tempo, sette. Ma una centuria? Si apriva un’infinità di ricerche nuove.

Ma Lona non c’entrava. La sua partecipazione era terminata sin dal primo giorno. Una infermiera sorridente che le passava sulle cosce qualcosa di fresco e un po’ pungente. Degli uomini che fissavano spassionatamente il suo corpo. Un anestetico. Una vaga foschia in cui avveniva una penetrazione. Nessun’altra sensazione. Tutto fatto. — Grazie, signorina Kelvin. Il suo compenso. — Pezzuole fresche appoggiate contro il suo corpo. Altrove si cominciava a lavorare sulle uova prelevate.

I miei bambini. I miei bambini.

Luci dei miei occhi!

Venuto il momento di uccidersi, Lona non ci riuscì completamente. Dei medici capaci di dar vita a un briciolo di materia, potevano anche salvarla nella fonte di quel briciolo. La rimisero in sesto e poi non ci pensarono più.