A una celebrità di nove giorni, il decimo è concessa l’oscurità.
L’oscurità, ma non la pace. La pace non è mai stata una concessione; bisogna conquistarla duramente, dall’interno. Tornata a vivere nelle tenebre, Lona, tuttavia, non poteva più essere la stessa, perché, altrove, cento neonati prosperavano e crescevano. Per ricavare quei bambini, non si era entrati solo nelle sue ovaie ma nel tessuto stesso della sua esistenza, e in lei il contraccolpo durava ancora.
Rabbrividiva nelle tenebre.
Un giorno, presto, si riprometteva, proverò ancora. E questa volta nessuno se ne accorgerà. Questa volta mi lasceranno andare. Dormirò a lungo.
9
In principio era il mondo
Uscire da quella camera, che in capo a tante settimane sembrava essere l’ultimo rifugio… Per Burris era quasi una nascita.
E Aoudad faceva il possibile per rendere il parto indolore.
Uscirono a notte alta, quando la città dormiva. Burris, ammantellato e incappucciato, non poté fare a meno di sorridere per la propria aria da cospiratore. Ma gli pareva opportuna. Nascosto dal cappuccio, a testa bassa, era al sicuro dagli sguardi dei passanti casuali. Nell’uscire, si tenne in un cantuccio della gabbia di discesa, augurandosi intensamente che, mentre se ne servivano, nessun altro chiamasse per salire. Nessuno chiamò; ma, mentre percorrevano l’andito, una chiazza vagante di luce lo illuminò un attimo, proprio mentre un inquilino rientrava. L’uomo, impietrito, guardò sotto il cappuccio. Burris rimase impassibile. Costui strabuzzò gli occhi, colto di sorpresa; ma proseguì in fretta, di fronte al viso truce e deformato di Burris, che lo fissava freddamente. Avrebbe avuto gli incubi, quella notte; ma Burris pensò che erano bazzecole, rispetto a certi incubi che si intrufolavano nel tessuto stesso della vita, come era capitato a lui.
Fuori, c’era una macchina pronta.
— I colloqui di Chalk, generalmente, non si svolgono a queste ore — chiacchierava Aoudad. — Ma lei capirà che questa è un’occasione particolare. Chalk desidera usarle ogni riguardo.
— Magnifico — disse cupo Burris.
Salirono in macchina. Era un po’ come uscire da una cella di prigione per entrare in un’altra più angusta, ma anche più invitante. Burris si accomodò su un sedile così ampio, che era quasi un sofà per varie persone, ma modellato, palesemente, per adattarsi a un solo paio di chiappe enormi. Aoudad sedette accanto a lui, su un sedile un po’ più convenzionale. La vettura si mise in moto, scivolando via silenziosa nel rombo muto delle turbine. Radiolocalizzata la più vicina autostrada ad accesso limitato, li portò in breve fuori dalle vie cittadine e si proiettò avanti a tutta velocità.
I finestrini della vettura erano opacizzati e Burris gettò indietro il cappuccio. Si stava allenando, poco per volta, in brevi riprese, a farsi vedere da altri. Aoudad, che non pareva far caso alle sue mutilazioni, era un buon soggetto di esercitazione.
— Qualcosa da bere? — chiese Aoudad. — Da fumare? Uno stimolante qualsiasi?
— Grazie, no.
— Lei può farne uso, così com’è?
Burris sorrise in modo truce. — Anche adesso, il mio metabolismo è uguale al suo. Differiscono le tubature; ma mangio i vostri cibi e bevo le vostre bibite. Ora come ora, però, non ne ho voglia.
— Me lo chiedevo. Vorrà scusare la mia curiosità.
— Naturalmente.
— E le funzioni corporali…
— Il sistema escretivo è migliorato. La riproduzione, non so che cosa abbiano fatto. Gli organi ci sono ancora; ma funzionano? Non ho fatto la prova.
I muscoli della guancia di Aoudad ebbero una contrazione, che non sfuggì a Burris. Perché si interessava talmente alla sua vita sessuale? Normale libidine, o cosa?
— Vorrà scusare la mia curiosità — ripeté Aoudad.
— L’ho già fatto. — Burris si appoggiò allo schienale e sentì una curiosa attività del sedile. Voleva forse fargli un massaggio. Senza dubbio egli era in uno stato di tensione e quell’affare, poveretto, cercava di rimettere a posto le cose. Ma era un sedile programmato per un uomo più grosso. Sembrava ronzare, come un circuito sovraccarico. Burris si chiese se la difficoltà di funzionamento derivasse solo dalla differenza di dimensione, o se l’inceppamento fosse dovuto alle caratteristiche della sua anatomia ristrutturata.
Avvisò Aoudad a proposito del sedile, e il contatto venne tolto. Burris, sorridente, si felicitò di essere così affabile e rilassato. Non aveva pronunciato una sola frase sarcastica o sgarbata, da quando Aoudad si era presentato. Era calmo, fuori della tempesta, librato al centro esatto. Bene, bene, aveva trascorso troppo tempo in solitudine, lasciando che le sue infelicità lo corrodessero. Quello sciocco Aoudad era un angelo salvatore venuto a tirarlo fuori da se stesso. Gliene sono grato, si disse Burris, scherzosamente.
— Eccoci arrivati. Questo è l’ufficio di Chalk.
Era un edificio relativamente basso, non aveva più di tre o quattro piani; ma reggeva il confronto con i grattacieli vicini. La sua mole, che si estendeva orizzontalmente, compensava l’altezza. A destra e a sinistra, l’edificio proseguiva ad angoli ottusi. Burris, sfruttando l’incremento del suo campo visivo periferico, spinse lo sguardo fin dove poteva lungo i fianchi e valutò che doveva trattarsi di un ottagono. Le mura esterne erano di un metallo opaco e marrone, lisciato e rifinito, con incastri di pietre che formavano motivi ornamentali. Nessuna luce trapelava dall’interno; del resto, non c’erano finestre.
Dinanzi a loro un muro si spalancò repentinamente, per l’alzarsi silenzioso di una saracinesca, e a tutta velocità la vettura vi passò attraverso, andando a fermarsi nelle viscere dell’edificio. Il tetto della vettura si aprì a molla e Burris si accorse che un uomo piccolo di statura, dagli occhi lucenti, lo stava guardando.
Provò una scossa, nel trovarsi così repentinamente di fronte a uno sconosciuto; ma si riprese e invertì la sensazione, ricambiando lo sguardo. Anche quell’ometto faceva sgranare gli occhi. Era di una bruttezza stupefacente, e, in questa, non c’era stato intervento di infausti chirurghi. Aveva la testa incassata, capelli bruni e folti che gli scendevano sul collo, grandi orecchie a sventola, naso piatto, incredibili labbra lunghe e sottili che in quel momento sporgevano in una smorfia repellente di meraviglia. Non era una bellezza.
Aoudad fece le presentazioni: — Minner Burris. Leontes d’Amore, appartenente allo stato maggiore di Chalk.
— Chalk è sveglio. Vi aspetta — disse d’Amore. Era brutta anche la voce.
Eppure, rifletté Burris, costui affronta il mondo ogni giorno.
Tirato su il cappuccio nuovamente, si lasciò trasportare attraverso una rete di condotti pneumatici fino a sgusciar fuori in una stanza, simile a una caverna immensa, costellata di centri lavorativi a vari livelli. Ma le scrivanie erano vuote, gli schermi erano silenziosi. L’ambiente era illuminato dallo splendore soffuso di fungosità termoluminescenti. Girando gli occhi lentamente, Burris spinse lo sguardo attraverso la stanza e, su per una serie di piuoli di cristallo, fino a scorgere, seduto come in trono vicino al soffitto, un individuo immenso.
Chalk, ovviamente.
Burris rimase assorto a guardarlo, dimenticando per un momento la miriade di punzecchiature che erano sue compagne costanti. Così grosso? Così gonfio? Costui doveva avere divorato mandrie intere di bovini, per ingrassare a quel modo.
Aoudad, al suo fianco, lo sollecitò ad avanzare, senza proprio osare di spingerlo per un gomito.
— Si lasci vedere — disse Chalk. Aveva una voce leggera, amichevole. — Su, qui da me, Burris.
In un attimo furono a faccia a faccia.
Burris si scrollò di dosso prima il cappuccio e poi il mantello. Pensava: guardi pure, costui. Di fronte a questa montagna di carne non ho da vergognarmi.