— Ed è…?
— Pieni diritti per lo sfruttamento commerciale della sua storia — disse Chalk. — A cominciare dalla sua cattura a opera degli esseri di un altro mondo, passando attraverso il suo ritorno alla Terra e al suo difficile rapporto con le sue condizioni alterate, e continuando col suo prossimo periodo di riadattamento. Il mondo sa già che tre uomini sono andati su un pianeta chiamato Manipol, che due sono stati uccisi e che un terzo è tornato, vittima di esperimenti chirurgici. Questo è stato reso noto; poi lei è sparito. Io voglio farla ricomparire in piena vista. Voglio mostrarla mentre scopre da capo la propria umanità, riprende i rapporti con gli altri, si arrampica fuori dell’inferno, per trionfare infine sulla catastrofe che le è capitata e uscirne purgato. Ciò significherebbe un’intrusione frequente nella sua vita privata e non mi meraviglierò se lei rifiuta. Infatti…
— Che cos’è? Una nuova forma di tortura?
— Forse una prova alquanto penosa — convenne Chalk. La sua vasta fronte era cosparsa di sudore. Appariva congestionato e teso, come se si avvicinasse a un culmine emotivo interiore.
— Purgato — bisbigliò Burris. — Lei mi offre il Purgatorio.
— Lo chiami pure così.
— Mi nascondo per varie settimane. Poi mi espongo nudo agli occhi dell’universo per cinque anni. Eh?
— Spese pagate.
— Spese pagate — disse Burris. — Sì, sì. Accetto la tortura, Sono il suo giocattolo, Chalk. Un essere umano rifiuterebbe. Ma io accetto. Accetto!
10
Una libbra di carne
— È all’ospedale — disse Aoudad. — Gli hanno fatto i primi esami. — Tirò un poco il vestito della donna. Toglilo, Elisa.
Elisa Prolisse spinge via la mano indiscreta. — È proprio vero che Chalk gli farà riavere un corpo umano?
— Non ne dubito.
— Quindi anche Marco avrebbe potuto riaverlo, se fosse tornato.
— Adesso esageri con i “se” — disse Aoudad senza sbilanciarsi. — Marco è morto. Apri la tua veste, cara.
— Aspetta. Posso andare a trovare Burris in ospedale?
— Credo. Che vuoi, da lui?
— Parlargli. Dimentichi che è l’ultimo ad aver visto vivo mio marito? Mi potrà dire come è morto Marco.
— Non hai niente da guadagnare — disse piano Aoudad. — Marco è morto mentre cercavano di trasformarlo come Burris è adesso. Se tu avessi veduto Burris, ti renderesti conto che per Marco è meglio essere morto.
— Tuttavia…
— Non ci guadagni niente.
— Appena è tornato, ho chiesto di vederlo — disse Elisa, assorta. — Volevo parlargli di Marco. C’era anche la vedova dell’altro, di Malcondotto. Non hanno lasciato che ci avvicinassimo. Poi Burris è sparito. Portami da lui!
— Meglio per te se sta alla larga — rispose Aoudad. Le sue mani risalivano sul corpo di Elisa, striscianti, indugianti, alla ricerca dei fermagli magnetici e depolarizzandoli via via. L’abito si aprì, apparvero i grossi seni bianchi. Lei gli afferrò le mani che si tendevano.
— Farai in modo che io veda Burris? — gli chiese.
— Io…
— Farai in modo che io veda Burris. — E questa volta la frase non era interrogativa.
— Sì, sì.
Le mani che gli bloccavano il cammino ricaddero. Aoudad rapidamente si spogliò. Quella donna era bella. Non più nella prima giovinezza, opulenta; ma bella. Queste italiane! Pelle bianca, capelli neri. Sensualissima! E che vedesse pure Burris, se voleva! Chalk avrebbe avuto delle obiezioni? Aveva già detto quale unione voleva favorire: Burris e la ragazza Kelvin. Ma se, prima di questo, Burris e la vedova Prolisse… Perché no? La mente di Aoudad vorticava.
Elisa alzò occhi adoranti al corpo asciutto e duro che la sovrastava.
Disse: — Domani, combinerai l’incontro.
— Sì. Domani…
L’ultimo indumento si era arreso. Egli poteva percorrere con gli occhi una distesa di carni bianche. Intorno alla coscia, c’era una fascia di velluto nero. Elisa Prolisse portava il lutto del marito.
11
Se due, di notte
L’ospedale sorgeva in margine al deserto. Era un edificio basso, lungo, a U, con i due bracci puntati verso est. Il primo sole, nascendo, strisciava pian piano su di essi fino a colpire in pieno il corpo principale che univa le due ali. Dietro questa costruzione di arenaria grigia striata di rosso, una striscia di giardino confinava direttamente, a ovest, col territorio desertico, arido e brunastro.
C’era vita anche lì. Gli scuri cespi di artemisia erano frequenti. Sotto la superficie calcinata si diramavano le gallerie dei roditori. Con un po’ di fortuna capitava di veder saltare le cavallette, di giorno, e, di notte, i topi del deserto, simili a piccoli canguri. La gran distesa era punteggiata di cactus, euforbie e altre piante grasse.
Questo rigoglio di vita invadeva anche l’area dell’ospedale. Nel giardino si infittivano le piante aculeate delle zone dominate dalla siccità. Anche nel cortile anteriore fra i due bracci della U erano stati piantati dei cactus. Ma qui nel giardino c’era un cactus candelabro, un “saguaro” alto sei volte quanto un uomo, col tronco centrale simile a una colonna scanalata e cinque braccia levate al cielo. Era inquadrato fra due esemplari di una varietà bizzarra, dal tronco liscio, con due piccole braccia imploranti e, in cima, un grappolo di escrescenze contorto. Lungo il sentiero, il bianco di una “cholla” che si fingeva un albero aveva di fronte un tozzo barile cerchiato di aculei. C’erano le canne spinose di un’opunzia, le pale piatte e grigiastre del fico d’india, la bellezza tutta a spire del cereo. In un altro momento dell’anno, le membra irte e compatte di quel temibile intrico davano teneri fiori pallidi e delicati, di color giallo, viola, rosa. Ma adesso si era d’inverno e, anche se lì non nevicava mai, l’aria era pungente, il cielo terso e di un azzurro duro. Quel luogo era senza tempo, con un grado di umidità prossimo allo zero. Talvolta, soffiava un vento freddo; ma il clima rimaneva inalterato, con un’escursione termica di dieci gradi fra l’estate e l’inverno.
Questo era il luogo in cui avevano trasportato Lona Kelvin in estate, sei mesi prima, dopo il suo tentativo di suicidio. In quell’epoca, i cactus erano quasi tutti sfioriti. Adesso, era di nuovo lì, e aveva mancato, ancora una volta, la stagione della fioritura, arrivando con un anticipo, anziché con un ritardo, di tre mesi. Avrebbe dovuto regolare meglio i propri impulsi di autodistruzione.
In piedi accanto a lei i medici parlavano come se lei non ci fosse.
— Sarà più facile ripararla, questa volta. Non ci sono ossa da saldare. Solo l’innesto di un polmone, o giù di lì, e sarà a posto.
— Fino a quando non proverà ancora.
— Questo non mi riguarda. Che la sottopongano a psicoterapia. A me spetta solo di riparare il corpo sconquassato.
— Non possiamo nemmeno dire sconquassato. Solo leso.
— Una volta o l’altra ci riuscirà. Uno che è ben deciso a uccidersi ci riesce sempre. Non hanno che da entrare in un convertitore nucleare, o fare qualche altra cosa definitiva dello stesso genere. Saltare a più di novanta piani. Non possiamo rimettere insieme un impasto di molecole.
— Non temi di darle delle idee?
— Ammesso che ascolti. Ma avrebbe potuto pensarci da sola, volendo.
— Non hai torto. Forse non è realmente decisa al suicidio. Forse vuole solo mettersi in vista.
— Credo di essere d’accordo con te. Due tentativi di suicidio in sei mesi, entrambi, mancati… quando le bastava aprire la finestra e saltare…