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— Ci penserò — promise Burris. Si chinò su un ginocchio accanto al barilotto di un cactus. Le spine erano disposte in linee convesse, che seguivano un arco di circolo massimo verso il polo. Pareva che ci fossero dei boccioli in formazione. Sulla targhetta luminescente posata accanto alla pianta, nella terra, c’era scritto Echinocactus grusonii. Burris lesse il nome ad alta voce.

— Questi cactus sembrano affascinarla — disse Aoudad. — Perché? Che cosa hanno di speciale per lei?

— La bellezza.

— Questi cosi! Ma se son tutte spine!

— Amo i cactus. Vorrei vivere per sempre in un giardino di cactacee. — Con la punta di un dito sfiorò una spina. — Lo sa che su Manipol ci sono quasi unicamente piante grasse spinose? Naturalmente, non dico che fossero delle cactacee; ma l’effetto, complessivamente, è uguale. È un pianeta arido. Con delle zone pluviali intorno ai poli e poi una siccità crescente man mano che ci si avvicina all’equatore. Piove all’incirca una volta ogni miliardo d’anni all’equatore, e un pochino più spesso nelle zone temperate.

— Che cosa è questa? Nostalgia?

— No davvero. Ma è lì che ho imparato la bellezza delle spine.

— Delle spine? Pungono.

— Ciò fa parte della loro bellezza.

— Adesso lei si mette a parlare come Chalk — borbottò Aoudad. — La sofferenza è una grande maestra, secondo lui. La sofferenza rende, le spine sono belle… Preferisco una rosa.

— Anche le rose hanno le spine — commentò piano Burris.

Aoudad parve smarrito. — E allora, diciamo che preferisco i tulipani. I tulipani!

Burris disse: — La spina è solo una forma, molto evoluta, di foglia; una prova della capacità di adattamento a un ambiente sfavorevole. I cactus non possono permettersi di traspirare come fanno le piante frondose. Quindi, si adattano. Mi dispiace che lei trovi brutto un adattamento così elegante.

— Credo di non essermi mai fermato a pensare molto a lungo su questo argomento. Senta, Burris, Chalk desidererebbe che per una o due settimane lei rimanesse ancora qui. Ci sono da fare alcune prove.

— Ma, se una chirurgia plastica del viso è impossibile…

— Desiderano farle un controllo generale e completo. Tenendo d’occhio l’eventuale trapianto di corpo.

— Capisco. — Burris annuì brevemente. Si rivolse verso il sole, lasciando che i deboli raggi invernali colpissero il suo viso deformato. — Com’è bello stare di nuovo al sole! Lo sa, Bart, che le sono grato? È stato lei a trascinarmi fuori da quella stanza. Da quella notte tenebrosa dell’anima. Sento, dentro di me, un generale disgelo. Tutto si scioglie, si libera, si muove. Sto accumulando le metafore? Vede, come sono già meno rigido?

— La sua flessibilità è sufficiente a permetterle di ricevere una visita?

Immediatamente sospettoso: — Chi?

— La vedova di Marco Prolisse.

— Elisa? La credevo a Roma!

— Roma è a un’ora da qui. Desidera moltissimo vederla. Dice che le autorità le hanno impedito di parlare con lei. Non desidero esercitare nessuna pressione; ma, a mio parere, lei dovrebbe permetterle di vederla. Potrebbe rimettersi le fasciature, se vuole.

— No. Non voglio nascondermi dietro le fasce. Mai più. Quando verrà?

— È già qui. Basta che lei dica una parola e la farò apparire.

— Allora, la porti pure quaggiù. Le parlerò nel giardino. Questo luogo somiglia talmente a Manipol…

Aoudad, stranamente, rimase muto. Infine disse: — La riceva in camera sua.

Burris alzò le spalle. — Come vuole. — Accarezzava le spine.

Infermiere, inservienti, medici, tecnici, ammalati in sedia a rotelle, tutti lo guardarono con tanto d’occhi, quando entrò nell’edificio. Persino due robot di fatica lo squadrarono curiosamente, tentando di classificarlo in base alla loro conoscenza programmata delle configurazioni del corpo umano. Burris non se ne curava. La sua timidezza svaniva giorno per giorno. Le fasce che aveva portato il primo giorno del suo ricovero gli parevano ora un espediente assurdo. Pensava che la sua situazione fosse simile a quella di andare nudi in pubblico: dapprima la cosa pareva inconcepibile, poi, a suo tempo, diventava tollerabile e, alla lunga, consuetudinaria. Bastava abituarsi.

Tuttavia, nell’aspettare Elisa Prolisse, si sentì a disagio.

Era davanti alla finestra e guardava giù il giardino del cortile anteriore quando bussarono alla porta.

Un impulso dell’ultimo istante (tatto o timore?) lo indusse a rimanere con le spalle voltate quando lei entrò. La porta venne richiusa timidamente. Egli non vedeva quella donna da cinque anni, ma se la ricordava formosa, lussureggiante: una bella donna. L’udito affinato di Burris gli disse che era entrata sola, senza Aoudad, e che aveva il respiro affannoso.

La udì chiudere a chiave la porta.

— Minner? — disse lei, piano. — Minner, voltati e guardami. Va tutto bene. Posso sopportarlo.

Non era lo stesso che mostrarsi al personale anonimo dell’ospedale. Burris si accorse con sorpresa che la serenità degli ultimi giorni, in apparenza solida, fuggiva rapidamente. Fu colto dal panico. Ebbe voglia di nascondersi. Ma da questo smarrimento scaturì la crudeltà, una gelida volontà di far male. Girò di scatto sui tacchi, sbattendo di colpo la propria immagine nei grandi occhi scuri di Elisa Prolisse.

Diamogliene atto: Elisa aveva una gran capacità di ripresa.

— Oh! — sussurrò. — Oh, Minner, è… — (rapido cambiamento di marcia) — è meno peggio di quanto mi avevano detto.

— Vuoi dire che mi trovi bello?

— Non mi spaventi. Credevo che mi avresti spaventata.

Avanzò verso di lui. Indossava una tunica nera aderente, che probabilmente era stata creata con lo spray sulla sua persona. La moda del momento favoriva di nuovo i seni alti, e così li portava Elisa: alti al punto da schizzar quasi fuori, vicino alle scapole, e profondamente separati. Il segreto di questo stava nella chirurgia estetica del petto. La tunica nascondeva interamente quei volumi di carne; ma in realtà che cosa poteva mai nascondere un micron di spray? Le sue anche tondeggiavano, le sue cosce erano come colonne. Ma era un po’ smagrita, tutto sommato. Senza dubbio, durante gli ultimi mesi, la tensione e l’insonnia avevano smangiato qualche centimetro da quei mappamondi. Gli era molto vicina, ora. Burris fu aggredito da un profumo che dava un poco le vertigini e, quasi inconsciamente, ne neutralizzò l’effetto su di lui.

Lasciò scivolare la mano fra le sue.

I loro sguardi si incontrarono. Se gli occhi di Elisa vacillarono, fu appena un attimo.

— Marco è morto coraggiosamente? — chiese lei.

— È morto da uomo. In modo degno dell’uomo che era.

— Tu, hai visto?

— Non gli ultimi istanti. No. Ho visto quando l’hanno portato via. Mentre noi aspettavamo il nostro turno.

— Credevi di morire, anche tu?

— Ne ero certo. Ho detto le parole dell’ultimo commiato per Malcondotto. Lui le ha dette per me. Ma io sono tornato.

— Minner, Minner, Minner, come dev’essere stato terribile! — Gli stringeva ancora le mani. Gli carezzava le dita, persino quel vermiciattolo di carne, di fianco al mignolo. Nel sentirsi toccare quella cosa schifosa, Burris provò una stretta allo stomaco, per la sorpresa. Lei aveva gli occhi spalancati, gravi, senza lacrime. Questa donna ha due figli, o forse tre? Ma è ancora giovane, ancora piena di vita. Egli si augurò che gli lasciasse andare la mano. La sua vicinanza lo disturbava. Dalle sue cosce, sentiva provenire radiazioni di calore, deboli sullo spettro elettromagnetico, ma percepibili. Per ricacciare indietro la tensione, si sarebbe morso le labbra, se i suoi denti avessero ancora potuto raggiungerle.