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— Come hai avuto la notizia di quel che ci era capitato?

— Quando è stata ritrasmessa da Ganimede. Mi hanno informata con molta delicatezza. Ma devo confessartelo: ho fatto orribili pensieri. Chiedevo a Dio perché Marco era morto e tu eri vivo. Mi dispiace, Minner.

— Non c’è motivo. Se fosse dipeso da me, io sarei morto e lui sarebbe vivo. Marco e Malcondotto, entrambi. Credimi, Elisa; non sono soltanto delle parole. Farei il cambio.

Si sentiva ipocrita. Egli voleva dire, naturalmente, che era meglio morto che mutilato; ma lei avrebbe interpretato diversamente le sue parole. Ne avrebbe visto solo l’aspetto nobile, quello del sopravvissuto scapolo che si augurava di dare la propria vita in cambio di quella dei mariti, e padri, che erano morti. Che cosa poteva dirle? Si era giurato di non piagnucolare mai più.

— Raccontami come è stato — disse lei, tenendogli sempre la mano, e tirandolo a sedere accanto a lei, sulla sponda del letto. — Come vi hanno presi. Come vi hanno trattati. Che impressione faceva. Devo sapere!

— Uno sbarco come gli altri — le raccontò Burris. — Solite formalità per lo sbarco e per stabilire i contatti. Non è male, il pianeta. Arido. Col tempo, fra un paio di milioni di anni, sarà come Marte. Per ora, sembra l’Arizona, con una sfumatura di Sonora e una bella fetta di Sahara. Abbiamo fatto conoscenza con loro. Hanno fatto conoscenza con noi.

I portelli degli occhi si chiusero di scatto. Sentì il soffio afoso. del vento su Manipol. Vide le forme simili a cactacee, piante grigiastre, spinose, serpentine che si snodavano sul terreno per centinaia di metri. I veicoli dei nativi tornavano a prenderlo.

— Sono stati beneducati, con noi. Avevano già ricevuto altre visite, conoscevano la solita prassi dei contatti. Non praticavano il volo spaziale, ma solo perché non li interessava. Parlavano alcune lingue. Malcondotto riuscì a parlare con loro. Aveva il dono delle lingue. Parlò in un dialetto di Sirio ed essi lo imitarono. Erano cordiali, distaccati… diversi. Ci hanno portati via.

Un tetto, sopra il suo capo. Vi crescevano degli esseri. E non erano nemmeno dei fitozoi o degli organismi inferiori. Nulla di simile a fungosità luminescenti. Erano creature provviste di scheletro, che spuntavano dalla volta del tetto.

C’erano anche delle vasche di una mistura in fermentazione, nella quale crescevano altri esseri viventi. Esseri minuscoli, rosei, biforcuti. — Un posto strano — disse Burris — ma non ostile. Ci hanno un po’ punzecchiato, palpato. Abbiamo parlato. Abbiamo eseguito delle osservazioni. Dopo un certo tempo ci siamo accorti di essere dei reclusi.

Gli occhi di Elisa, molto lucidi, sembravano seguire le sue parole, man mano che gli cadevano dalle labbra.

— Senza alcun dubbio, possedevano una cultura scientifica molto progredita. Quasi post-scientifica. Certamente post-industriale. Malcondotto era del parere che si servissero di energia nucleare, ma non ne abbiamo affatto raggiunto la certezza. Dopo il terzo o quarto giorno non abbiamo più avuto la possibilità di controllare.

Si accorse a un tratto che lei non era affatto interessata al suo racconto. Lo ascoltava appena. Perché era venuta, allora? Perché glielo aveva chiesto? Quella storia, che era il nodo, il nucleo, l’anima del suo essere, doveva riguardarla; invece stava lì con le sopracciglia contratte, fissandolo con gli occhi spalancati, senza ascoltarlo. Egli la fulminò con lo sguardo. La porta era chiusa. Non poteva fare a meno di ascoltare.

— Il sesto giorno, vennero e si portarono Via Marco.

Una increspatura di attenzione. Una incrinatura in quella superficie liscia e mollemente sensuale.

— Non dovevamo rivederlo più. Ma intuivamo che gli avrebbero fatto del male. Lo intuì, per primo, Marco stesso. Ha sempre avuto una lieve vena di preveggenza.

— Sì, sì, l’aveva. Un poco.

— Se ne andò. Malcondotto e io ci perdevamo in ipotesi. Passarono alcuni giorni, e quelli vennero a prendere anche Malcondotto. Marco non era tornato. Malcondotto, prima che lo portassero via, parlò con loro. Seppe che avevano condotto sulla persona di Marco una specie di… esperimento. Era stato un insuccesso. Lo seppellirono senza mostrarcelo. Poi si misero all’opera su Malcondotto.

Si accorse che lei aveva smesso nuovamente di ascoltarlo. Non gliene importa niente, si disse. Un barlume di interesse quando le ho detto come è morto Prolisse, e poi… nulla.

Non può fare altro che ascoltare.

— Alcuni giorni. Vennero a prendermi. Mi mostrarono Malcondotto, morto. Aveva un aspetto… un po’ come il mio di adesso. Diverso. Peggiore. Io non capivo quello che mi dicevano. Era un ronzio monotono, un chiacchierio raschiante. Che suono produrrebbero i cactus, se parlassero? Mi riportarono indietro e mi lasciarono cuocere a fuoco lento, in solitudine, per un po’. Immagino che stessero riesaminando i primi due esperimenti, cercando di capire dove stava l’errore, quali erano gli organi con i quali non ci si poteva gingillare. Mi è sembrato che passasse un milione di anni, nell’attesa che tornassero. Sono tornati. Mi hanno messo su un tavolo. Elisa. Il resto, puoi vederlo tu stessa.

— Ti amo — disse lei.

— Cosa?

— Ti voglio, Minner. Brucio.

— Il viaggio di ritorno è stato solitario. Mi hanno messo nella mia astronave. In qualche modo, potevo ancora governarla. Mi hanno dato via libera. Mi sono messo in viaggio verso il nostro sistema planetario. È stato un pessimo viaggio.

— Ma hai raggiunto la Terra.

Come mai, dunque, sei fuori dell’inferno?

Che dici! L’inferno è questo e non ne sono fuori.

Egli proseguì: — Sì, l’ho raggiunta. Quando sono atterrato, Elisa, avrei voluto parlarti; ma, devi capire, non ero libero delle mie azioni. Mi hanno preso per la gola, al principio. Poi mi hanno mollato e sono fuggito. Devi perdonarmi.

— Ti perdono. Ti amo.

— Elisa…

Lei toccò qualcosa vicino alla sua gola. Le giunture polimerizzate della sua veste resero l’anima. L’abito cadde ai suoi piedi in neri brandelli.

Tanta carne, erompente di vitalità. Ne emanava un calore da cui si sentiva sopraffatto.

— Elisa…

— Vieni, toccami. Con quel tuo strano corpo. Con quelle mani. Voglio sentire quelle cose arricciate che hai sulle mani, che mi accarezzino.

Gli era terribilmente vicina, e poi indietreggiò affinché egli la vedesse interamente.

— Non è giusto, Elisa.

— Ma ti amo! Non lo senti?

— Sì, sì…

— Non ho altro che te. Marco è morto. Tu l’hai visto per ultimo. Sei il mio legame con lui. E sei così…

Egli pensò: tu sei Elena.

— …così bello.

— Bello? Io?

L’aveva detto, Chalk… Lo aveva detto, Duncan il Corpulento, che un sacco di donne sarebbero state pronte a gettarsi ai suoi piedi.

— Per favore, Elisa, copriti.

Ora, una furia si era scatenata in quegli occhi dolci e caldi. — Non sei ammalato! Sei forte!

— Forse.

— Ma mi respingi? — Gli puntò un dito addosso. — Questi mostri… non ti hanno distrutto. Sei ancora un uomo.

— Forse.

— Allora…

— Ho passato dei così brutti momenti, Elisa.

— E io no?

— Tu hai perduto il marito. È una cosa vecchia quanto il mondo. Quel che mi è accaduto è nuovo di zecca. Non voglio…

— Hai paura?

— No.

— Allora mostrami il tuo corpo. Togliti la vestaglia.

Egli esitò. Lei conosceva sicuramente il suo colpevole segreto; l’aveva desiderata per anni. Ma non ci si mette a scherzare con le mogli degli amici, e lei era la moglie di Marco. Ora Marco era morto. Elisa lo fissava, in parte in preda a un desiderio struggente, in parte raggelata dalla collera. Elena, è Elena!