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Appena un pochino fuori dell’atmosfera, Chalk si librava sul suo pianeta. Lo guardava dall’alto e lo approvava. I mari erano verdi tendenti al blu, se non erano blu tendenti al verde; gli parve di vedere dei ghiacci galleggianti. Verso nord c’era terra, color marrone nella morsa dell’inverno. Di là dalla curvatura, c’era il verde dell’estate.

Chalk aveva l’abitudine di trascorrere parecchio tempo nelle zone più basse dello spazio. Era il modo migliore e più elegante per sfuggire alla gravità. Il suo pilota, forse, era scombussolato, poiché Chalk, lassù, non consentiva l’uso dei gravitroni inversi e nemmeno di una forza centrifuga, per dare l’illusione del peso. Ma il suo pilota era ben pagato e poteva sopportare tali disagi, se così si potevano chiamare.

L’assenza di peso non era nemmeno lontanamente un disagio, per Chalk. Pur conservando la propria massa, la propria stupenda massa da brontosauro, non subiva alcuno degli inconvenienti relativi.

— Questo — stava dicendo Burris alla ragazza — è uno dei pochi esempi in cui è lecito dire che si ha qualcosa per niente. Pensa: nella fase del lancio disperdiamo, attraverso i gravitroni, la gravità di accelerazione, così che le unità in eccesso vengono espulse e noi ci solleviamo senza disturbi. Per arrivare dove siamo, non dobbiamo fare sforzi, né pagare lo scotto di un peso supplementare, prima di ritrovarci senza peso. Quando atterriamo, trattiamo al medesimo modo il problema della decelerazione. Passiamo così dal peso normale all’assenza di gravità e viceversa senza mai provare l’appiattimento.

— Ma si può dire che è gratuito? — chiese Lona. — Voglio dire, l’impiego dei gravitroni deve costare molto. Tenuto conto della spesa, per la partenza, per l’arresto, per tutto, non è esatto che si sia avuto, in realtà, qualcosa per niente.

Chalk, divertito, guardò Burris. — È molto intelligente, se ne è accorto?

— Infatti, l’ho notato.

Lona arrossì. — Mi state prendendo in giro.

— Niente affatto — disse Burris. — Hai azzeccato, del tutto da sola, il principio della conservazione della gravità. Ma prendi troppo alla lettera il nostro ospite, che considera la cosa dal suo punto divista. Il fatto di non dover sentire personalmente l’aumento della gravità di accelerazione non viene a costargli niente, nel senso più reale della parola. I gravitroni assorbono tutto. Guarda, è come commettere un delitto e pagare un altro per scontare il fio. Certo, per trovare un sostituto devi sborsare. Ma tu hai avuto quel che volevi dal delitto, e l’altro ne riceve la pena. In termini di denaro…

— Lascia perdere — disse Lona. — È bello, comunque, trovarsi quassù.

— Ti piace la mancanza di peso? — chiese Chalk. — L’avevi mai provata in precedenza?

— Si può dire di no. Ho fatto solo alcuni viaggi brevi.

— E lei, Burris? L’assenza di gravità allevia i suoi disturbi?

— Un poco sì, grazie. Gli organi che non sono dove dovrebbero essere, smettono di subire una trazione. Non mi sento in petto quelle maledette strappate. Un piccolo, ma grato, sollievo.

Chalk notò, tuttavia, che Burris era ancora immerso in un bagno di sofferenza. Più blanda, forse, ma non a sufficienza. Che impressione faceva, il provare un disagio fisico costante? Chalk ne sapeva qualcosa (un pochino, se non altro), a causa dello sforzo di trascinarsi in giro quel suo corpo in condizioni di gravità normale. Ma, lui, era gonfio da così lungo tempo! Si era abituato alla trazione, dolorosa e costante. E Burris? Con quelle sue sensazioni come di unghie conficcate nella sua carne. Non protestava. L’apparenza della rivolta affiorava solo ogni tanto. Burris, decisamente, migliorava. Stava imparando ad adattarsi a quella particolare condizione che, per lui, era la sua condizione umana. Chalk, sensibile com’era, captava ancora le emanazioni della sofferenza, non solo psichica, ma anche fisica. Burris si era calmato, risollevato dal nero pozzo della depressione nel quale Aoudad lo aveva trovato all’inizio; ma era lungi dallo stare su un letto di rose.

A paragone, stava meglio la ragazza, concluse Chalk. Era un meccanismo un po’ meno complicato.

Burris e la ragazza sembravano felici, a fianco a fianco.

Naturalmente, col passare del tempo, ciò sarebbe cambiato.

— Vedete le Hawaii? — chiese Chalk. — E lì, sull’orlo del mondo, c’è la Cina. La Grande Muraglia. L’abbiamo restaurata, in gran parte. Vedetela, proprio sopra quel golfo: partendo dal mare, va verso l’interno. Passa a nord di Pechino e poi si arrampica su quelle montagne. Il tratto nel deserto dell’Ordos, nella parte mediana, è scomparso. Ma non era mai stata una gran cosa; solo una linea di fango. E la vedete, dopo, riprendere verso il Sinkiang? Lungo la Muraglia abbiamo diversi centri per feste, gite e riunioni. Ce n’è proprio uno, sul lato verso la Mongolia, che si aprirà tra breve. La Cupola dei Divertimenti Kublai Khan. — Chalk rise. — Ma non è solenne e maestosa: tutto, ma non solenne e maestosa!

Notò che quei due si tenevano per mano

Si concentrò per captare le loro emozioni. Ancora niente di buono. Dalla ragazza veniva solo una specie di contentezza, blanda e molliccia, una cosa materna e inespressiva. Sì, prometteva bene. E Burris? Poca roba, sinora. Era rilassato, più di quanto Chalk l’avesse mai veduto. Burris aveva simpatia per la ragazza. Era evidente che lo divertiva. Gli piaceva l’attenzione che lei gli dedicava. Ma non provava nessun sentimento profondo, per lei; non la considerava come una vera e propria persona. Fra non molto, lei sarebbe stata disperatamente innamorata di lui. Chalk riteneva improbabile che ci sarebbe stata reciprocità di emozioni. Quella differenza di voltaggio, pensava Chalk, poteva generare una corrente interessante. Una termocoppia, per così dire. Ebbene, si sarebbe stati a vedere che cosa ne usciva.

La navicella spaziale si precipitava verso ovest, oltre la Cina, oltre il corridoio del Kansu, orbitando sopra l’antica Strada della Seta.

Chalk disse: — Mi risulta che voi due partite domani per i vostri viaggi. Così mi ha detto Nick.

— Infatti. L’itinerario è combinato — disse Burris.

— Non vedo l’ora! Non sto più nella pelle dall’impazienza! — esclamò Lona.

Quell’esplosione di gergo da scolaretta seccò Burris. Chalk, ben sintonizzato ormai ai loro umori mutevoli, affondò i suoi ricettori sensitivi in quel lampo di irritazione, e lo deglutì. Quello scatto di emozione era uno strappo improvviso in un velario di velluto senza giunture, una lacerazione scura e irregolare attraverso una superficie liscia e perlacea. Un inizio, pensò Chalk. Un inizio.

— Il viaggio dovrebbe risultare stupendo — disse. — Vi accompagnano gli auguri di miliardi di persone.

18

“Nel paese dei balocchi”

Si faceva alla svelta molta strada, quando si era nelle mani di Duncan Chalk. I tuoi tirapiedi avevano trasportato Burris e Lona direttamente dall’ospedale alla base spaziale privata di Chalk e, dopo la rapida orbita intorno al mondo, li avevano condotti difilato all’albergo. Era l’albergo più sontuoso che mai si fosse visto in tutto l’emisfero occidentale, e questo fatto, che sembrava abbagliare Lona, infastidiva oscuramente Burris.

Entrato nell’atrio fu sul punto di ribaltarsi.

Gli accadeva sempre più spesso, ora che appariva in pubblico. Non aveva mai imparato a servirsi bene di quelle gambe. I ginocchi erano una specie complessa di giunto a sfera, ideato evidentemente per abolire l’attrito; e nei momenti più imprevisti accadeva talvolta che facessero cilecca, come appunto in quel momento. Ebbe la sensazione che la sua gamba sinistra di disgregasse e fu sul punto di slittare verso lo spesso tappeto giallo.

I vigili robot-fattorini scattarono in suo aiuto. Aoudad, in possesso di riflessi un po’ meno pronti dei loro, lo agguantò in ritardo. Ma Lona, la più vicina, piegò i ginocchi puntandogli la propria spalla contro il petto e sostenendolo mentre annaspava per ritrovare l’equilibrio. Burris rimase sorpreso dal fatto che fosse così forte da reggerlo mentre gli altri si gettavano avanti per tenerlo.