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Burris, che dava il braccio a Lona, tenne il viso impassibile. Guardateci, guardateci bene, pensava con sarcasmo. Siamo la coppia del secolo. L’astronauta mutilato e la vergine madre di cento figli. Lo spettacolo del secolo!

Tutti li guardavano, sì. Burris sentiva passare gli sguardi sulla linea delle sue mascelle che non finivano con un orecchio, sui suoi occhi con dei portelli che si aprivano e chiudevano a scatti, sulla sua bocca rifatta. Si meravigliò egli stesso per la propria mancanza di reazione alla loro volgare curiosità. Guardavano anche Lona; ma lei aveva meno da offrire in pasto al pubblico: le sue ferite erano ulteriori.

Improvvisamente, a sinistra di Burris, ci fu del trambusto.

Un attimo dopo, Elisa Prolisse, uscita di mezzo alla gente, si precipitava verso di lui, con un grido squarciante: — Minner, Minner!

Sembrava un’ossessa. Si era pitturata il viso bizzarramente, con una truccatura di una violenza mostruosa, righe azzurre sulle guance, sporgenze rosse sopra gli occhi. Sdegnando lo sprayon, indossava questa volta un abito di un tessuto naturale, frusciante, seducente, con una profonda scollatura che scopriva i globi bianchi come il latte dei suoi seni. Tendeva in avanti le mani, che terminavano in artigli lucenti.

— Ho cercato di parlarti — ansimò. — Non mi hanno lasciata avvicinare…

Aoudad piombava verso di loro. — Elisa…

Lei gli graffiò la guancia con le unghie. Aoudad barcollò indietro ed Elisa si girò verso Burris. Guardò Lona velenosamente. Agguantò il braccio di Burris, tirandolo e dicendo: — Vieni via con me. Non ti lascio, ora che ti ho ritrovato.

— Levagli le mani di dosso!

Era Lona. Le sillabe erano uscite dalle sue labbra come lame roteanti.

La donna più matura guardò la ragazza. Burris, attonito, pensò: adesso si picchiano. Elisa pesava almeno venti chili più di Lona, e, come Burris ben sapeva, era fortissima. Ma anche Lona aveva risorse di forza insospettate.

Una scenata nell’atrio dell’albergo, pensò egli con una curiosa chiarezza. Nulla ci verrà risparmiato.

— Io lo amo, puttanella! — gridò Elisa con voce rauca.

Lona non rispose, ma la sua mano partì in un gesto rapido e falciante verso il braccio teso di Elisa, e colpì di taglio l’avrambaccio carnoso con un colpo secco. Elisa soffiò. Ritirò il braccio. Mise di nuovo le mani ad artiglio. Lona, scartando, si piegò un poco sulle ginocchia, pronta a scattare.

Tutto ciò si era svolto in pochissimi secondi. Ora gli astanti sbalorditi si mossero, Burris stesso, superato il primo attimo di paralisi, s’interpose con un passo facendo scudo a Lona contro la furia di Elisa. Aoudad afferrò quest’ultima per un braccio. Lei, cercò di scrollarlo e liberarlo, facendo tremolare i seni scoperti, nello sforzo. Nikolaides intervenne dall’altra parte. Elisa strillava, scalciava, si dibatteva. Si era formato un cerchio di robot-fattorini. Burris li guardò mentre tiravano via Elisa. Lona si appoggiò a una colonna di onice. Aveva il viso fortemente arrossato; ma, a parte ciò, non aveva niente fuori posto, neanche nel trucco e nell’acconciatura. Sembrava più stupita che spaventata.

— Chi era, quella? — chiese.

— Elisa Prolisse. La vedova di uno dei miei compagni di volo.

— Che cosa voleva?

— Chi lo sa? — mentì Burris.

Lona non si lasciò ingannare. — Ha detto che ti ama.

— Affari suoi. Credo che abbia attraversato un periodo di grande tensione.

— L’ho vista, all’ospedale. È venuta a trovarti. — Le verdi fiamme della gelosia guizzavano sul viso di Lona. — Che cosa vuole da te? Perché ha fatto quella scenata?

Aoudad venne alla riscossa. Tenendo appoggiata una pezzuola alla guancia insanguinata, disse: — Le abbiamo somministrato un sedativo. Non vi disturberà più. Sono dolentissimo di quanto è accaduto. Quella stupida isterica…

— Torniamo di sopra — disse Lona. — Non ho voglia di mangiare nella Sala Galattica, adesso.

— Oh, no! — disse Aoudad. — Non dovete disdire! Vi darò un tranquillante e in un attimo starete meglio. Non lasciate che un episodio stupido come questo sciupi una splendida serata.

— Togliamoci dall’atrio, per lo meno — disse Burris.

Il gruppetto si avviò in fretta a una saletta appartata, brillantemente illuminata. Lona si lasciò andare su un divano. Burris, nel quale ora scoppiettava l’agitazione trattenuta, sentiva delle fitte nelle cosce, ai polsi, nel petto. Aoudad tirò fuori un astuccio tascabile di tranquillanti, prendendone uno egli stesso e dandone uno a Lona. Burris rifiutò con una spallucciata il tubetto, sapendo che non avrebbe avuto effetto su di lui. Entro pochi istanti Lona era di nuovo sorridente.

Egli sapeva di non essersi sbagliato, quando le aveva visto la gelosia negli occhi. Elisa era piombata tra loro come un ciclone di carne, minacciando di spazzar via tutto ciò che Lona possedeva, e Lona aveva reagito combattendo fieramente. Burris era al tempo stesso lusingato e turbato. Non poteva negare che l’essere l’oggetto di quella lotta gli aveva fatto piacere, come l’avrebbe fatto a qualsiasi uomo. Ma quell’attimo rivelatore gli aveva mostrato soprattutto la profondità dell’attaccamento che Lona già provava per lui. Il suo non era altrettanto profondo. La ragazza, sì, gli piaceva, e gli era grata la sua compagnia; ma era lungi dall’esserne innamorato. Dubitava assai che avrebbe mai amato, lei o qualunque altra. Lei invece, senza che ci fosse tra loro nemmeno il vincolo di un legame fisico, si era evidentemente costruita, nell’intimo, una fantasia romantica. In questo (Burris lo sapeva) c’era un germe di guai futuri.

Svuotata dalla tensione grazie al tranquillante, Lona si era ripresa. Si alzarono, Aoudad, nonostante la guancia ferita, era raggiante.

— Adesso, volete andare a cena? — chiese.

— Mi sento molto meglio — disse Lona. — Tutto è stato così improvviso. Mi ha sconvolta.

— Cinque minuti nella Sala Galattica le faranno dimenticare tutta la faccenda — disse Burris. Le porse di nuovo il braccio. Aoudad li guidò alla speciale gabbia di salita che portava solo alla Sala Galattica. Salirono sulla piastra di gravità e filarono verso l’alto. Il ristorante stava proprio in cima all’albergo e dalla sua posizione elevata aveva di fronte il cielo, come un osservatorio privato, un sibaritico Uraniborg del cibo. Ancora tremante per l’inattesa aggressione di Elisa, Burris provò un’ulteriore ansia quando raggiunsero il vestibolo del ristorante, mantenne un’apparenza calma; ma forse, nello splendore supremo della Sala Galattica, l’avrebbe colto il panico?

C’era stato una volta, molto tempo prima. Ma con un altro corpo. E con una ragazza che adesso era morta.

L’asse di ascesa si arrestò ed essi penetrarono in un bagno di viva luce.

Aoudad disse, con tono ultrasolenne: — La Sala Galattica! Il vostro tavolo vi aspetta. Buon divertimento.

Sparì, e Burris fece volutamente un sorriso a Lona, che sembrava intontita dalla felicità e dal terrore. Dinanzi a loro si spalancarono le porte di cristallo. Entrarono.

19

“Le jardin des supplices”

Non si era mai visto un ristorante simile, da Babilonia in poi. Le terrazze salivano, a gradini, verso la volta stellata. La rifrazione era eliminata, e pareva di cenare all’aperto sotto il cielo benché l’elegante pubblico fosse completamente al riparo dal clima. Uno schermo di luce nera, che incorniciava la facciata dell’albergo, cancellava fin l’ultimo riverbero delle luci della città, così che, sulla Sala Galattica, le stelle brillavano come su una foresta disabitata.

I mondi lontani dell’universo parevano quasi a portata di mano, e lo splendore stesso della sala derivava da oggetti che provenivano da quei mondi. Lo speciale aspetto delle pareti, che disegnavano curve ininterrotte, era dovuto alla disposizione di prodotti extraterrestri: ciottoli di tinte vivaci, affissi, pitture, alberi magici tintinnanti fatti in leghe bizzarre, strutture di luce viva a zigzag, ciascuna inserita nelle nicchie, lungo i diversi livelli. I tavoli sembravano spuntare dal pavimento, coperto da un tappeto costituito da un organismo semi-sensibile che si trovava su un pianeta di Aldebaran. A essere sinceri, il tappeto somigliava molto a limo terrestre lavorato in uno stampo; ma la direzione non si faceva scrupolo di vantarne la composizione, e la consistenza era estremamente soffice.