Nei punti strategici della Sala Galattica crescevano arbusti in vaso, piante fiorifere odorose, alberi nani, tutte cose (si diceva) importate da altri mondi. Persino il lampadario era di produzione extraterrestre: una colossale fioritura di gocce dorate, ricavate dalla secrezione, simile all’ambra, di un bestione marino che viveva lungo le coste grìgie di un pianeta Centaurino.
Nella Sala Galattica, le cene costavano cifre astronomiche, ma tutti i tavoli erano occupati, tutte le sere: bisognava prenotarli con delle settimane di anticipo. I fortunati di quella sera ebbero l’inatteso privilegio di vedere l’astronauta e la fanciulla dai molti figli; ma erano anch’essi stessi, per la maggior parte, delle celebrità, e dedicarono solo un’attenzione momentanea a quella coppia intorno alla quale si faceva tanta pubblicità. Un rapido sguardo, e tornarono a occuparsi del proprio piatto.
Lona aveva attraversato le spesse porte trasparenti tenendosi stretta al braccio di Burris, conficcandovi le piccole dita al punto che temeva di fargli male. Si trovò ritta su una stretta piattaforma sopraelevata. Davanti a lei si spalancava un’enorme distesa vuota, col cielo stellato sul capo. Il centro del ristorante era incavato, largo quasi un centinaio di metri da una parte all’altra; le file dei tavoli aderivano come scaglie al guscio esterno, procurando a ogni cliente una poltrona di prima fila sullo spazio cosmico.
Lei ebbe l’impressione di cadere in avanti, e di ruzzolare nel pozzo che si apriva davanti ai suoi piedi.
Le tremavano le ginocchia, aveva la gola secca, ondeggiava sui tacchi e sbatteva rapidamente gli occhi. Il terrore la trafiggeva in mille punti. Forse sarebbe caduta nell’abisso, forse quella strega dalle poppe gigantesche sarebbe ricomparsa aggredendoli mentre mangiavano: lei stessa, avrebbe commesso qualche orribile goffaggine a tavola o avuto un improvviso attacco di nausea. Poteva succedere di tutto. Era un ristorante di sogno. Ma non era detto che fosse un bel sogno.
Una voce vellutata, che usciva dal nulla, mormorò: — Signor Burris, signorina Kelvin, benvenuti nella Sala Galattica. Per favore, avanzate.
— Dobbiamo metterci su quella lastra di gravità.
La lastra, che pareva di rame, costituiva un disco, dello spessore di un paio di centimetri, con due metri di diametro, che sporgeva dall’orlo della piattaforma su cui stavano. Burris, vi condusse Lona e subito, disormeggiato, il disco scivolò in avanti e verso l’alto. Lona non guardò giù. La lastra galleggiante nell’aria li trasportò sul lato opposto della gran sala e andò a fermarsi accanto a un tavolo vuoto, appollaiato su una sporgenza a mensola. Burris smontò e aiutò Lona a passare sulla sporgenza. Il loro disco trasportatore svolazzò via, tornando al suo posto. Lona, per un attimo, lo vide di taglio, in un alone sgargiante di luce riflessa.
Il tavolo, a un sol piede, pareva solidale con la sporgenza. Fu un sollievo, per Lona, prendere posto sulla sua sedia, che istantaneamente aderì alle sue forme. Quella stretta confidenziale aveva un che di osceno, ma era rassicurante, avrebbe evitato che un giramento di testa la facesse cadere nel vuoto alla sua sinistra.
— Ti piace? — chiese Burris, guardandola negli occhi.
— Incredibile. Non immaginavo assolutamente nulla di simile. — Non gli disse che era sconvolta.
— Abbiamo un tavolo in posizione privilegiata. Probabilmente, quello stesso di Chalk, quando cena qui.
— Non supponevo che ci fossero tante stelle!
Alzarono gli occhi. Da dov’erano, il loro sguardo spaziava senza ostacoli su un arco di Centocinquanta gradi. Burris le indicò le stelle e i pianeti.
— Marte — disse. — È facile: quello grande, color arancio. Ma riesci a vedere Saturno? Naturalmente non si vedono i suoi anelli; ma… — Le prese la mano, la guidò, puntandola, e descrisse la configurazione celeste, finché non ritenne che avesse capito. — Presto saremo lassù, anche noi, Lona. Da qui non possiamo vedere Titano a occhio nudo; ma ci andremo fra poco. E allora li vedremo, gli anelli! Guarda, guarda lì Orione. E Pegaso. — Le disse i nomi delle costellazioni, delle stelle, provando un piacere quasi sensuale a pronunciarli: Sirio, Arturo, la Polare, Antares, Betelgeuse, Aldebaran, Procione, Vega… — Ognuna è un sole — disse. — La maggior, parte ha dei pianeti. Guardale, tutte spiegate dinanzi ai nostri occhi.
— Hai raggiunto molti altri soli?
— Undici, nove dei quali avevano dei pianeti.
— Anche qualcuno di quelli che hai nominato? Mi piacciono quei nomi.
Egli scosse il capo. — I soli dove sono andato io sono indicati con dei numeri, non con dei nomi. O meglio, non hanno dei nomi dati da terrestri. Per lo più, ne hanno degli altri, e alcuni li ho anche saputi. — Lei vide che gli angoli della sua bocca si allargavano e si richiudevano rapidamente. Lona aveva imparato a riconoscere, in lui, questo segno di tensione. Si chiese se fosse opportuno parlargli delle stelle. Forse preferiva che nessuno gliele ricordasse.
Sotto quel baldacchino scintillante, tuttavia, lei non poteva farne a meno.
— Tornerai mai lassù? — chiese.
— Fuori del nostro sistema? Ne dubito. Non sono più in servizio. E non ci sono voli turistici per le stelle vicine. Ma naturalmente partirò ancora dalla Terra. Con te. Per il giro planetario. Non è proprio la stessa cosa… ma è più sicura.
— Mi puoi… Mi puoi… — Esitò e poi si lanciò: — Mi puoi indicare il pianeta dove ti hanno… catturato?
Tre rapide contorsioni della bocca di Burris. — È un sole azzurrastro. Da questo emisfero non si vede. E a occhio nudo non si vede nemmeno più in giù. Sei pianeti. Manipol è il quarto. Quando orbitavamo intorno a esso, preparandoci a scendere, provai una strana eccitazione. Come se il destino stesso mi conducesse in quel luogo. Forse ho una minima dose di preveggenza; che ne dici, Lona? Non c’è dubbio che, nel mio destino, Manipol abbia avuto una grossa importanza… Ma sono certo di non avere il dono della preveggenza. Pensa: di tanto in tanto mi colpisce profondamente la sensazione che mi aspetta un viaggio per tornare lì. È assurdo. Tornarci! Rivederli!… — Il suo pugno si chiuse improvvisamente, irrigidendosi con uno scatto convulso che fece contrarre tutto il braccio. Un vaso, con dei fiori dai petali carnosi, per poco non volò via nel vuoto. Lona lo afferrò. Notò che quando egli chiudeva la mano, il piccolo tentacolo esterno si avvolgeva ordinatamente intorno al dorso delle sue dita. Con entrambe le mani, lei gli coprì le nocche fino a quando la tensione sfumò e le dita si aprirono.
— Non parliamo di Manipol — propose. — Però le stelle sono belle.
— Sì. Ma io l’ho pensato solo dopo essere tornato sulla Terra dal mio primo viaggio. Ci sembrano, da qui, puntini luminosi. Ma quando si è presi nella rete dei loro raggi, rimbalzando qua e là come vogliono le stelle… è diverso. Ti lasciano il segno. Lo sai, Lona, che da questa sala si ha una vista delle stelle quasi altrettanto netta che dai portelli di un’astronave?
— Come mai? Non ho mai visto niente di simile.
Egli cercò di spiegare il funzionamento dello sbarramento di luce nera. Dopo la terza frase, Lona non ci capì più nulla, ma continuò a fissarlo negli occhi con aria attenta, fingendo di ascoltare, decisa a non deluderlo. Quante cose sapeva! Tuttavia, in quel luogo di delizie, era spaventato quanto lei. Parlando, creavano una barriera contro la paura; ma, nei silenzi, Lona sentiva acutamente, con estremo imbarazzo, la presenza delle centinaia di persone ricche, sofisticate, che la circondavano, e del lusso schiacciante, e dell’abisso che si apriva accanto a lei, e della propria ignoranza e inesperienza. Sotto quello sfolgorio di stelle si sentiva come nuda e persino Burris, negli intervalli della conversazione, le ridiventava estraneo, e le sue deformità chirurgiche, che aveva quasi smesso di notare, assumevano tutt’a un tratto una evidenza paurosa.