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— Beviamo qualcosa? — egli chiese.

— Sì. Sì, per favore, ordina tu. Io non so che cosa prendere.

Non c’era in vista nessun cameriere, né umano né paraumano. Lona non ne vedeva nemmeno agli altri tavoli. Burris ordinò, semplicemente, parlando a una piccola griglia d’oro che aveva alla sua sinistra. Lei provò una reverente ammirazione di fronte al suo modo di fare calmo ed esperto; anzi, ebbe il sospetto di dover manifestare questa ammirazione. Disse: — Sei venuto spesso a mangiare qui? Hai l’aria di sapere quel che bisogna fare.

— Sono venuto una volta. Più di dieci anni fa. Non è un posto che si dimentica facilmente.

— Eri già un astronauta, a quel tempo?

— Oh, sì. Avevo compiuto un paio di missioni. Ero in licenza e volevo fare impressione su una certa ragazza…

— Oh!

— Non l’ho fatta. Lei ha sposato un altro. Morirono in viaggio di nozze, nel disastro del Disco Volante.

Più di dieci anni fa, pensò Lona. Lei, allora, aveva meno di sette anni. Di fronte a lui sì sentiva rimpicciolire, con la sua giovinezza. Fu lieta di veder arrivare le bibite.

Arrivarono su un piccolo vassoio a gravitroni, volando attraverso quel baratro vuoto. Lona si accorse che quei vassoi di servizio erano piuttosto numerosi, e si meravigliò che non si scontrassero, alzandosi vero i tavoli rispettivi. Ma naturalmente non ci voleva granché a programmare delle orbite che non si intersecassero.

La sua bevanda venne in una piccola ciotola di pietra nera levigata, consistente al tatto eppure morbida e gracile alle labbra. La prese e se la portò alla bocca con gesto automatico; e prima di sorseggiarla si accorse dello sbaglio. Burris, sorridente, aspettava, col bicchiere ancora dinanzi a sé.

Quando sorride così, pensò Lona, ha una maledetta aria da maestro di scuola. Sembra che mi sgridi senza aprir bocca. Lo so, che cosa pensa! Che sono una piccola vagabonda ignorante che non sa comportarsi.

Lasciò sbollire l’ira. Ma si accorse di essere arrabbiata con se stessa, non con lui, e questo le fu di aiuto, per calmarsi.

Guardò il bicchiere di Burris.

C’era qualcosa dentro, che sembrava nuotare.

Il bicchiere era di quarzo trasparente, pieno per tre quarti di un fluido denso, verde e viscoso. E un minuscolo animale a forma di goccia, dalla pelle color viola, andava avanti e indietro oziosamente, lasciando una lieve scia fosforescente.

— È messo lì volutamente? — chiese Lona.

Burris rise. — Mi sono fatto portare un cosiddetto martini Deneb. Che nome assurdo! Una specialità della casa.

— E quella cosa che c’è dentro?

— Una specie di girino. Una forma di vita anfibia, che proviene da un pianeta di Aldebaran.

— E lo inghiotti?

— Sì, vivo.

— Vivo! — Lona ebbe un brivido. — Perché? Ha un sapore così buono?

— Non ha alcun sapore, in realtà. È lì semplicemente per figura. La raffinatezza, compiuto l’intero giro, torna alle barbarie. Un sorso, e va giù.

— Ma è vivo!

Burris sorrise con gentilezza. — Scusami. Non l’avrei ordinato, se avessi pensato che poteva darti fastidio. Vuoi che lo faccia portare via?

— No. Lo berrebbe qualcun altro, immagino. Non volevo dire tutto questo. Ero solo un poco sconvolta, Minner. Ma è la tua bibita. Bevila tranquillamente.

— La rimando indietro.

— Per favore. — Gli toccò il tentacolo della mano sinistra. — Lo sai perché non sono d’accordo? Perché il fatto di inghiottire un essere vivente equivale a considerarsi un dio. Voglio dire: si è lì, giganteschi, e si distrugge un essere che non sa assolutamente il perché. Così come…

— Così come delle creature di un altro mondo possono prendere un organismo inferiore, e sottoporlo a intervento chirurgico senza prendersi il disturbo di spiegare il perché? — chiese egli. — Così come dei medici possono condurre un complicato esperimento sulle ovaie di una ragazza, senza tener conto del contraccolpo psicologico? Dio mio, Lona! Dobbiamo mettere da parte questi pensieri, e non continuare a tornarci su!

— Questo che hai ordinato per me, che cosa è?

— Un Gaudax. Da un pianeta del Centauro. È leggero e dolce, ti piacerà. Alla salute, Lona.

— Alla salute.

Egli fece orbitare il proprio bicchiere intorno alla ciotola nera di Lona, salutando l’uno e l’altra. Poi bevettero. L’aperitivo Centaurino le pizzicò leggermente la lingua; era vagamente oleoso, ma delicato, delizioso. Lei ebbe un fremito di piacere. Dopo tre rapidi sorsi, depose la ciotola.

L’esserino che nuotava era scomparso dal bicchiere di Burris.

— Vuoi gustare il mio? — le chiese egli.

— No, per favore.

Egli annuì. — Allora, ordiniamo la cena. Mi perdoni per la mia mancanza di riguardo?

Due cubi verde scuro, di dieci centimetri di lato, erano posati l’uno accanto all’altro sul tavolo. Lona aveva creduto che fossero solo ornamentali; ma quando Burris ne spinse uno verso di lei, si rese conto che dovevano essere la lista delle vivande. Nella mano, si accendeva di una luce calda e apparivano delle lettere luminose che sembravano stare uno o due centimetri sotto la superficie liscia. Lei fece rigirare il cubo. Minestre, carni, antipasti, dolci…

Non riconosceva nulla.

— Non dovrei trovarmi qui, Minner. Io mangio solo cose comuni. Tutto questo è talmente bizzarro che non so da dove cominciare.

— Vuoi che ordini per te?

— È meglio. Salvo che ci siano cose che vorrei realmente. Una bistecca tritata di proteine e un bicchiere di latte.

— Dimenticali. Assaggia un po’ delle specialità più rare.

— Ma è così falso, che io mi finga una conoscitrice.

— Non fingere niente. Mangia e goditela. La bistecca tritata di proteine non è il solo cibo dell’universo.

La sua calma si estendeva anche a lei, tenendola a freno ma senza avvolgerla interamente. Egli ordinò per entrambi. Lona era fiera della sua abilità. Il fatto di saper scegliere sul menu di un locale come quello non era gran cosa; ma lui era così esperto! Le infondeva un rispetto reverenziale. Se l’avessi incontrato prima, pensò Lona, quelli… E tagliò netto quel pensiero. Non era immaginabile un concorso di circostanze tale da metterla in contatto con Minner Burris prima che fosse mutilato. Non si sarebbe neanche accorto di lei. Doveva essere molto occupato con donne scodinzolanti come quella vecchia Elisa. La quale lo desiderava ancora, ma non lo avrebbe avuto. È mio! pensò Lona, con violenza. È mio. Mi hanno gettato un essere in pezzi e io sto contribuendo ad aggiustarlo: nessuno me lo toglierà.

Cominciarono ad arrivare le portate. Ognuna era una ghiottoneria di mondi lontani, sia autentica, importata dall’origine, sia riprodotta sulla Terra con la massima perfezione. Il tavolo si coprì rapidamente di stranezze. Piatti, ciotole, tazze di cose bizzarre, servite con un’opulenza da stordire. Burris gliene diceva i nomi, cercava di spiegarle che cos’erano; ma lei adesso si sentiva girare la testa e riusciva appena a capire. Che cos’era questa carne bianca, a lamine? E queste bacche dorate immerse nel miele? Questa zuppa pallida, cosparsa di formaggio aromatico? Già sulla Terra c’erano tante cucine diverse; il fatto di avere a disposizione quelle di una Galassia dava le vertigini e le tagliava l’appetito.