Lona mangiucchiò. Un boccone di questo, un sorso di quello. Continuava ad aspettarsi di trovare un essere vivente nel bicchierino successivo. Fu sazia molto prima che giungesse la portata di mezzo. C’erano due vini. Burris li mescolò, e cambiarono colore, passando dal turchese e dal rubino a una sfumatura inaspettata, opalina. — Reazione di catalisi — egli disse. — Qui, tengono conto dell’estetica quanto del gusto. — Ma lei poté berne appena un pochino.
Le stelle si erano forse messe a descrivere cerchi irregolari?
Lei udiva, tutto intorno, il ronzio delle conversazioni. Da più di un’ora riusciva a fingersi di trovarsi isolata, con Burris, in una piccola oasi privata; ma ora la presenza degli altri si faceva sentire. Guardavano. Commentavano. Andavano in giro, spostandosi di tavolo in tavolo sulle lastre a gravitroni. Hai visto? Che ne pensi? Che bello! Che strano! Che buffo!
— Minner, andiamo via.
— Ma non abbiamo ancora finito.
— Lo so. Non m’importa.
— Liquore prodotto nel gruppo del Procione. Caffè galattico.
— Minner… no. — Vide che gli si aprivano gli occhi quanto lo consentivano gli sportelli e capì che le aveva letto in viso una espressione che lo aveva colpito. Lei era sul punto di sentirsi male e forse Burris l’aveva visto chiaramente.
— Ce ne andiamo — le disse. — Il dessert lo prenderemo un’altra volta.
— Sono così spiacente, Minner — mormorò lei. — Non volevo sciupare la cena. Ma questo locale… Non mi sento proprio al mio posto. Mi impaurisce. Tutti quei cibi strani. E tutti ci guardano, vero? Se potessimo tornare in camera sarebbe molto meglio.
Egli stava già chiamando il disco trasportatore. Lona sentì che la sedia allentò la presa. Alzandosi, si accorse di avere le gambe molli. Non sapeva come fare un passo senza ribaltarsi. In quell’attimo di esitazione vide chiarissimi dei particolari isolati. Una donna grassa, ingioiellata, con una quantità di doppi menti. Una ragazza dorata, avvolta di trasparenze, non molto più vecchia ma certo molto più disinvolta di Lona. Il giardino di alberelli biforcuti, due livelli più giù. Un vassoio che scivolava attraverso lo spazio aperto, portando tre tazze di una cosa scura, sconosciuta e brillante. Lona oscillò. Burris la tenne salda e praticamente la mise sul disco sollevandola di peso, ma in un modo che non rivelava fino a qual punto la stesse sorreggendo.
Mentre attraversavano il baratro, verso la piattaforma d’ingresso, lei tenne lo sguardo fisso avanti.
Aveva il viso arrossato e imperlato di sudore. Le sembrava che nel suo stomaco gli animali extraterrestri fossero tornati in vita e nuotassero tranquillamente nei succhi gastrici. In qualche modo, lei e Burris oltrepassarono le porte di cristallo. Poi, giù nell’atrio attraverso la gabbia di discesa direttissima e di nuovo su, attraverso un’altra gabbia, fino al loro appartamento. Intravide Aoudad che vagolava nel corridoio e che si eclissò rapidamente dietro un grosso pilastro.
— Ti senti male? — le chiese.
— Non lo so. Sono lieta di essere fuori di lì. Qui c’è più calma. Hai chiuso bene la porta?
— Certamente. Posso fare qualcosa per te, Lona?
— Lasciami riposare. Pochi minuti, da sola.
Egli la trasportò nella sua camera e la posò sul letto rotondo. Poi uscì. Lona rimase sorpresa della rapidità con cui stava ritrovando l’equilibrio da quando era uscita dal ristorante. Per ultimo, le era sembrato che il cielo stesso fosse un occhio enorme che la spiava.
Più calma, ora, Lona decise di spogliarsi di tutto il suo falso fascino. Si mise sotto il vibraspray. Istantaneamente il suo abito sontuoso svanì. Lei si sentì subito più piccola e più giovane. Si preparò per la notte.
Accese una lampada tenue, disattivò il resto dell’illuminazione, e scivolò fra le lenzuola. Il loro contatto era fresco e gradevole sul corpo. Un quadro di comando regolava i movimenti del letto e la sua forma; ma Lona non se ne occupò. Disse piano in un intercom sotto il cuscino: — Minner, vuoi venire, adesso?
Egli entrò subito. Indossava ancora il suo sgargiante abito da sera, completo di cappa. Le coste sporgenti, simili a costole, erano così strane da annullare quasi completamente la stranezza del suo corpo.
Lei pensava che la cena era stata un disastro, che il ristorante con tutto il suo scintillio era stato come una camera di tortura per lei; ma che si poteva ancora salvare la serata.
— Prendimi fra le braccia — disse con voce fioca. — Sono ancora un po’ scossa, Minner.
Burris si avvicinò. Si sedette accanto a lei, che si sollevò un poco, facendo scivolare il lenzuolo. Egli volle abbracciarla, ma le coste dell’abito formavano una barriera rigida.
— È meglio che mi tolga la bardatura — disse lui.
— Lì c’è il vibraspray.
— Devo spegnere la luce?
— No, no.
Non lo abbandonò con gli occhi mentre egli attraversava la stanza.
Burris salì sulla piattaforma del vibraspray e lo aprì. Era fatto per pulire la pelle da qualsiasi materia aderente, e per prima cosa, naturalmente, sparì l’abito di sprayon.
Lona non aveva mai visto il suo corpo.
Impavida, pronta a qualsiasi rivelazione catastrofica, vide che l’uomo nudo si voltava. Avevano tutti e due un volto teso, poiché quella era una prova a doppio taglio, che avrebbe dimostrato se lei fosse in grado di fronteggiare l’ignoto ed egli potesse sopportare la scossa di fronteggiare la reazione di Lona.
Da giorni e giorni lei temeva quel momento. Ma era venuto e, con crescente meraviglia, lei si accorse che lo aveva superato senza danni.
Non terribile a vedersi, come credeva.
Certo, era strano. La sua pelle, come quella del viso e delle braccia, era lucida e irreale, un contenitore senza cuciture, diverso da qualsiasi altro che un uomo avesse mai avuto. Era senza peli. Non aveva ombelico né petto, cosa di cui Lona si accorse solo dopo avere cercato la causa della stranezza.
Egli aveva le braccia e le gambe attaccate al corpo in modo insolito, e, per vari centimetri, fuori posto. Il suo torace pareva troppo ampio in relazione alla larghezza dei fianchi. I suoi ginocchi non sporgevano normalmente dalle gambe. Quando si muoveva, i muscoli del suo corpo si increspavano in modo curioso.
Ma questi erano solo dei particolari, non delle autentiche deformità. Egli non portava il segno di cicatrici orrende, non aveva membra supplementari nascoste, non aveva occhi o bocche inattesi sul corpo. I veri cambiamenti erano interni e sul suo viso. E per quanto Lona poteva saperne, sembrava in possesso di una virilità normale.
Burris si avvicinò al letto. Lei sollevò le braccia. Un attimo dopo egli era accanto a lei, con la pelle a contatto della sua. La consistenza era strana, ma non spiacevole. In quel momento, egli sembrava bizzarramente timido. Lona si strinse maggiormente a lui. Chiuse gli occhi. Non voleva vedere, in quel momento, il suo viso alterato, e comunque, improvvisamente, persino la fioca luce della lampada le feriva la vista. Stese la mano su di lui. Le loro labbra si incontrarono.
Lona non era stata baciata spesso. Ma non era mai stata baciata così. Coloro che avevano dato una nuova forma alla bocca di Burris, non l’avevano destinata a baciare. Ma non era spiacevole. Poi Lona sentì le dita di Burris sulla sua carne. La pelle di Burris aveva un odore dolce e pungente. La luce si spense.
Nel corpo di Lona una molla si tendeva, si tendeva…
Era una molla che si stava tendendo sempre più da diciassette anni… E ora la sua forza scattò in un solo istante tumultuoso.
Lei staccò la bocca. Le sue mascelle si aprirono e uno strato muscolare vibrò nella sua gola. Fu trapassata da un’immagine lancinante: l’immagine di se stessa, stesa su una tavola operatoria, sotto anestesia, col corpo aperto alle sonde degli uomini in bianco. Fulminò questa immagine, frantumandola e scacciandola.