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Egli ebbe l’impressione di essere uno sciocco, un idiota, un mucchio di fango animato. La guardava istupidito. Lei parve sconcertata, poi si chinò, afferrò della neve, ne fece una palla e gliela gettò in faccia ridendo: — Smettila, con quell’aria sinistra. Acchiappami, Minner, acchiappami!

Scappò di corsa e in breve fu a una distanza inattesa. Si fermò, macchia nera sul biancore, e raccolse altra neve. Egli vide che faceva un’altra palla di neve. Lei la gettò in modo maldestro, facendo forza dal gomito, come usano le ragazze; ma la mira era buona e la palla arrivò a una decina di metri da Burris.

Egli si scosse dallo stupore in cui lo avevano gettato le parole spensierate della ragazza. — Non mi acchiappi! — strillava Lona, ed egli si mise a correre, per la prima volta dopo Manipol, a lunghi passi sul tappeto nevato. Anche Lona correva, mulinando le braccia, tagliando con i gomiti l’aria sottile e gelida. Burris sentì che una nuova potenza inondava le sue membra. Le sue gambe, che gli sembravano così inaccettabili, con le loro giunture multiple, trovavano ora una coordinazione perfetta, fornendogli una spinta morbida e veloce. I palpiti del cuore non acceleravano. Obbedendo a un impulso, gettò indietro il cappuccio e lasciò che l’aria agghiacciata gli sfiorasse le guance.

Correndo forte, gli ci vollero pochi istanti per raggiungerla. Lona, affannata e ridente, girò su se stessa, quando le fu vicino, e si gettò nelle sue braccia. Lo slancio gli fece ancora fare cinque passi, prima di cadere insieme a lei. Rotolarono con le mani guantate che sbattevano la neve, ed egli respinse anche il cappuccio di Lona, grattò una manata di ghiaccio e gliela ficcò sul viso. Il ghiaccio le gocciolò giù per il collo sotto gli indumenti, lungo il petto e il ventre. Lei strillava, indignata e felice: — Minner, no! Minner, no!

Burris le gettò dell’altra neve. E Lona fece altrettanto. Ridendo in modo convulso, gliela ficcò nel colletto. Era così fredda che scottava. Caddero stesi insieme nella neve, ed egli l’ebbe fra le braccia, la strinse, inchiodandola al suolo del continente senza vita. Passò molto tempo prima che si alzassero.

22

Via di qui, malinconia

Anche quella notte si svegliò urlando.

Lona se lo aspettava. Certo i demoni inesorabili si sarebbero impadroniti di lui. Ed era rimasta stesa nell’oscurità, sveglia, al suo fianco, per buona parte della notte. Burris, durante la sera, aveva avuto dei momenti di cupaggine che andavano e venivano.

La giornata, fatta eccezione per quell’episodio all’inizio, era stata piacevole. Lona avrebbe voluto rimangiarsi la confessione di essere stata indotta da Chalk a conoscerlo. Aveva taciuto la parte peggiore: che era stato Nikolaides ad avere l’idea di regalargli il piccolo cactus in vaso, e persino a dettarle il bigliettino. Sapeva quale sarebbe stato l’effetto, se Burris lo avesse saputo.

Dopo la battaglia a palle di neve avevano camminato sul deserto di ghiaccio, privo di sentieri. Accorgendosi che l’albergo non era più in vista, Lona si spaventò. Vedeva dappertutto lo stesso biancore piatto. Un paesaggio tutto uguale. — Possiamo tornare indietro? — chiese lei, e Burris annuì. — Sono stanca, vorrei rientrare. — Non era così stanca, in realtà; ma il pensiero di smarrirsi in un luogo simile l’atterriva. Presero la via del ritorno. O meglio: Burris diceva che stavano rientrando, ma per lei, la nuova direzione sembrava la stessa di prima. In un punto videro un’ombra scura sotto la neve. Un pinguino morto, disse Burris, e lei rabbrividì; ma allora riapparve, miracolosamente, l’albergo. Lei si chiese come mai, in quel mondo piatto, l’albergo fosse scomparso, prima. E Burris le spiegò (come già le aveva spiegato molte e molte cose, ma ora con maggiore pazienza) che il mondo, anche qui, non era veramente piatto ma quasi altrettanto curvo che altrove e che perciò bastava fare qualche chilometro per vedere sparire dietro l’orizzonte i punti noti e riconoscibili. Come aveva fatto l’albergo.

Ma quest’ultimo era riapparso, ed essi avevano una gran fame, e fecero colazione con entusiasmo, annaffiandola di birra in quantità. Nessuno, qui, beveva cocktails verdi con cose vive dentro. Birra, formaggio, carne: questa era l’alimentazione adatta per quella terra dell’inverno senza fine.

Nel pomeriggio fecero una gita in motoslitta. Andarono a vedere, prima di tutto, il Polo Sud.

— È esattamente come tutto il resto — disse Lona.

— Che ti aspettavi, un palo a strisce colorate?

Di nuovo il sarcasmo. Ma lei vide che dopo questo commento gli occhi di Burris erano rattristati. Non aveva voluto ferirla. Era il suo modo di fare spontaneo, ecco tutto. Forse pativa tali sofferenze, vere sofferenze, che non poteva fare a meno di mostrarsi sferzante.

In realtà, il Polo aveva qualcosa di diverso dal resto del vuoto altopiano polare. Qui c’erano delle costruzioni. Una zona circolare di una ventina di metri di diametro, intorno al fondo del mondo, era sacra e inviolabile. Accanto a essa, c’era la tenda (restaurata o rifatta) dello esploratore norvegese Roald Amundsen, che era venuto in quel luogo, in slitta trainata da cani, un paio di secoli prima. Una bandiera a strisce sventolava sopra la tenda scura. Misero la testa dentro: non c’era niente.

Poco lontano, una baracca di tronchi. — Perché di tronchi? — chiese Lona. — Non ci sono mica gli alberi, nell’Antartide. — Per una volta, l’osservazione era intelligente, e Burris rise.

Quella costruzione era votata alla memoria di Robert Falcon Scott, giunto dopo Amundsen al Polo; e morto sulla via del ritorno. Dentro, c’erano dei diari, dei sacchi a pelo, l’armamentario degli esploratori. Lona lesse la targhetta. Scott e i suoi uomini non erano morti lì, ma molti chilometri più lontano, presi in trappola dalla stanchezza e dalle tempeste invernali, mentre faticosamente camminavano per rientrare alla base. Tutta quella roba era fasulla, messa lì solo per far spettacolo; Lona provò un senso di noia e pensò che anche Burris, probabilmente, lo provava.

Ciò non toglie che stare sul Polo Sud era impressionante.

— Da questo punto, tutto il mondo resta a nord — le disse Burris. — Noi pendiamo in fuori, dal fondo del globo. Da qui, tutto è sopra di noi. Ma non cadremo.

Lei rise. Il mondo, nonostante tutto, non le sembrava affatto diverso, in quel momento. Il territorio circostante si estendeva lateralmente e non verticalmente. Cercò di figurarsi il mondo come se lo vedesse da un veicolo spaziale: una palla sospesa nel cielo, e lei stessa, più piccola di una formica, appesa al fondo con i suoi piedi verso il centro e la testa puntata verso le stelle. Ma non riusciva a crederci.

Nelle vicinanze del Polo c’era un chiosco che faceva da posto di ristoro. Lo tenevano ricoperto di neve, affinché desse nell’occhio il meno possibile. Burris e Lona presero due tazze fumanti di cioccolata.

Non visitarono la base scientifica sotterranea, che si trovava a qualche centinaio di metri. I visitatori erano graditi, in quel luogo dove gli scienziati barbuti vivevano tutto l’anno, studiando il magnetismo, il tempo e così via; ma Lona non voleva rimettere mai più piede in un laboratorio. Scambiò degli sguardi con Burris, che annuì; e la guida li ricondusse alla motoslitta.

La giornata era troppo avanzata, era tardi per fare tutta la strada fino al banco di Ross. Viaggiarono invece, per più di un’ora, a nord-ovest del Polo, nella direzione di una catena di montagne che rimase sempre lontana, e giunsero in un misterioso punto caldo dove non c’era neve ma solo la nuda terra marrone, macchiata di rosso dalle incrostazioni di alghe, con rocce coperte da uno strato sottile di licheni giallo-verdi. Lona chiese poi di vedere i pinguini, ma le fu detto che in quella stagione non c’erano pinguini nell’interno, salvo qualcuno disperso. — Sono uccelli acquatici — disse la guida. — Stanno vicino alla costa e vengono all’interno solo all’epoca in cui devono deporre le uova.