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— In realtà no. Non in modo da poterli toccare, tranne una volta. Li ho visti solo sugli schermi.

— E Chalk te ne procurerà veramente qualcuno da allevare?

— Così ha detto.

— Gli credi?

— Che cos’altro posso fare? — ella chiese. Gli posò una mano sulla sua. — Ti fanno male le gambe?

— Poca cosa, in realtà.

Nessuno dei due mangiò molto. Dopo cena, ci fu la proiezione di film: scene dell’inverno antartico, tridimensionali. Una tenebra di morte, un vento mortale che spazzava l’altopiano e alzava lo strato di neve superficiale trasformandola in milioni di coltelli. Lona vide i pinguini che stavano ritti a scaldare le uova. E poi dei pinguini scarruffati, spinti dalla violenza della tempesta, che marciavano attraverso il territorio, accompagnati in cielo dal rullo di un tamburo cosmico, mentre una muta infernale, invisibile, balzava su zampe silenziose da un picco all’altro. Il film terminava con l’aurora: il levar del sole macchiava il ghiaccio di un colore rosso come il sangue, dopo una notte di sei mesi; il ghiaccio oceanico si rompeva, pezzi enormi di banchisa si staccavano e crollavano fragorosamente. La maggior parte dei clienti passò dalla sala cinematografica al salone. Lona e Burris andarono a letto. Non fecero l’amore. Lona sentiva che in lui si andava accumulando la tempesta e sapeva che, prima del mattino, sarebbe scoppiata.

Giacevano in un bozzolo di oscurità; per tener fuori l’instancabile sole, bisognava opacizzare i vetri della finestra. Lona, supina, respirava piano, sfiorandolo col fianco. Riuscì ad assopirsi e cadde in un sonno leggero. Dopo un po’, i suoi personali fantasmi vennero a visitarla. Si risvegliò, sudata, e si trovò nuda in una stanza sconosciuta accanto a un uomo sconosciuto. Il cuore le batteva all’impazzata. Si posò le mani sul petto e si ricordò dov’era.

Burris si mosse e gemette.

Raffiche di vento colpivano l’edificio. Ed era estate! Lei si sentì infreddolita fino alle ossa. Udì un lontano suono di risa. Ma non si staccò dal fianco di Burris e non tentò di riprendere sonno.

I suoi occhi, che si erano abituati all’oscurità, le consentivano di osservarlo in viso. La bocca, articolata come su cardini, era, a suo modo, espressiva. Si apriva scivolando, si chiudeva, scivolava di nuovo. Gli occhi, una volta, fecero lo stesso; ma anche con le palpebre rientrate egli non vedeva nulla. Lona si rese conto che Burris era di nuovo su Manipol. Appena sbarcati, lui e… e quegli altri, con i nomi italiani. Fra un po’ gli extraterrestri verranno a prenderlo…

Lona cercò d’immaginarsi Manipol. Un suolo riarso e arrossato, delle piante contorte e spinose. E le città, come erano? Avevano strade, macchine, apparecchi audiovisivi? Burris, non gliene aveva mai parlato. Lei sapeva solo che quel pianeta era arido, antico e che c’erano dei chirurghi abilissimi.

Poi Burris urlò.

Il suono cominciò in fondo alla gola, come un grido gorgogliante, incoerente, che via via saliva di timbro e di volume. Lona si voltò, lo abbracciò, stringendolo a sé. La pelle di Burris era bagnata di sudore? Impossibile. Doveva essere lei. Egli sbatteva le braccia, scalciava. Il copriletto scivolò a terra. Lei sentiva che i muscoli, sotto la pelle levigata, si contraevano e si ingrossavano. Con un movimento brusco, pensò Lona, potrebbe spezzarmi.

— Non è niente, Minner. Sono qui io. Sono qui io. Va tutto bene.

— I coltelli… Prolisse… Dio mio, i coltelli!

— Minner!

Lei non lo mollava. Burris adesso lasciava penzolare il braccio sinistro, che pareva girato alla rovescia dal gomito in giù. Si stava calmando. Il suo respiro affannato era rumoroso come uno scalpitio. Lona, sporgendosi oltre il suo corpo, accese la luce.

Burris aveva di nuovo il viso chiazzato. Ammiccò in quel suo terribile modo laterale, due o tre volte, e si portò la mano alla bocca. Lasciandolo andare, lei si scostò, seduta, un po’ tremante. La crisi di quella notte era stata peggiore della precedente.

— Un sorso d’acqua? — chiese.

Egli annuì. Si teneva aggrappato al materasso così forte da lacerarlo.

Mandò giù l’acqua. Lei disse: — È stato così spaventoso, stanotte? Ti facevano male?

— Ho sognato che assistevo mentre facevano l’operazione. Prima Prolisse, che moriva. Poi tagliavano Malcondotto. E moriva anche lui. Poi…

— Veniva la tua volta?

— No — disse lui, con meraviglia. — No. Mettevano sul tavolo operatorio Elisa. La aprivano, proprio tra… i seni. E sollevavano una parte del suo torace, così che vedevo le costole e il cuore. Si spingevano dentro.

— Povero Minner. — L’aveva interrotto prima che le rovesciasse addosso tutte quelle cose immonde. Perché aveva sognato di Elisa? Era buon segno, che la vedesse mentre la mutilavano? Oppure sarebbe stato meglio (pensò Lona) se avesse sognato di me… di me che venivo trasformata in una cosa simile a lui?

Gli prese una mano e la posò sul calore del proprio corpo. Non le veniva in mente altro metodo per alleviare la sua sofferenza, e usava quello. Egli rispose alla sollecitazione.

Poi sembrò addormentarsi. Lona, più nervosa, si scostò e aspettò, finché un sonno leggero non tornò ad avvolgerla. Fu guastato da sogni spiacevoli. Sognava che un astronauta tornato sulla Terra aveva recato con sé una creatura pestilenziale, una specie di grasso vampiro, e che questo fosse incollato al suo corpo e la succhiasse… la svuotasse. Era un brutto sogno, ma non tale da svegliarla, e col tempo si trasformò in un sonno più profondo.

Quando si svegliarono, lei aveva delle occhiaie scure, un viso sbattuto. Burris non mostrava alcuna traccia della sua notte agitata; la sua pelle non aveva la proprietà di reagire in modo così vistoso a effetti catabolici di breve portata. Sembrava quasi allegro, mentre si vestiva, preparandosi per il nuovo viaggio.

— Sei impaziente di vedere i pinguini? — le chiese.

Aveva dimenticato il suo truce stato d’animo depressivo della sera prima e gli orrori urlanti della notte? Stava solo cercando di spazzarli via?

Lona si chiese fino a qual punto, comunque, egli fosse umano.

— Sì — rispose freddamente. — Sarà uno spasso, Minner. Muoio dall’impazienza di vederli.

23

La musica delle sfere

— Stanno già cominciando a odiarsi — disse Chalk affabilmente.

Era solo; ma questo non era un buon motivo per non dar voce ai suoi pensieri. Parlava spesso da solo. Un medico gli aveva detto, una volta, che il dar forma parlata ai pensieri, anche in solitudine, produceva benefici effetti neuropsichici.

Egli galleggiava in un bagno di sali aromatici. La vasca era profonda tre metri, lunga sei, larga quattro. C’era ampio spazio anche per una mole come quella di Duncan Chalk. I fianchi di marmo avevano bordi di alabastro, ed erano circondati da una pavimentazione in piastrelle di porcellana, di un color rosso sangue di bue. Tutto l’ambiente della sala da bagno era coperto da una cupola spessa e trasparente che offriva a Chalk la vista del cielo. Da fuori, viceversa, nessuno avrebbe visto Chalk; il talento di un ingegnere ottico aveva abilmente provveduto a questo fatto. Dall’esterno, la cupola aveva una superficie lattiginosa, striata da volute di un pallido rosa.

Chalk galleggiava oziosamente, senza peso, pensando ai due “amanti dolorosi”. Era scesa la notte, ma senza stelle; c’era solo la foschia rossastra delle nuvole invisibili. Era ricominciato a nevicare, i fiocchi di neve danzavano in complicati arabeschi, spiralando verso la superficie della cupola.

— È stufo di lei — diceva Chalk — e lei ne ha paura. La ragazza, per i suoi gusti, manca di intensità. Per lei, invece, il suo voltaggio è troppo alto. Ma viaggiano insieme. Mangiano insieme. Dormono insieme. Non tarderanno a litigare aspramente.

Le registrazioni erano eccellenti: Aoudad e Nikolaides, che seguivano quei due da vicino ma furtivamente, raccoglievano immagini sparse della coppia, immagini felici da diffondere per il pubblico in attesa. Quella battaglia a palle di neve: un capolavoro! E così pure la gita in motoslitta. Minner e Lona sul Polo Sud. Il pubblico beveva tutto ciò avidamente.