Anche Chalk faceva lo stesso. A suo modo.
Chiuse gli occhi, rese opaca la cupola e continuò a galleggiare comodamente, alla deriva nella sua vasca da bagno. Gli giunsero sensazioni frammentarie d’inquietudine.
…queste giunture che non funzionano nel modo giusto per un uomo…
…sentirsi disprezzata, reietta dall’umanità…
…maternità senza figli…
…lampi di sofferenza, luminosi come le fungosità che gettavano il loro giallo bagliore sulle pareti del suo ufficio…
…le pene del corpo e le pene dell’anima…
…solo!
…immonda!
Chalk boccheggiò, come se una corrente a bassa tensione gli attraversasse il corpo. Un dito scattò in su, ad angolo rispetto alla mano, e così rimase per un po’. Un segugio dalle fauci bavose gli attraversò di un balzo il proencefalo. Sotto la carne flaccida del petto, gli spessi cordoni muscolari si contraevano e si allentavano ritmicamente.
…visite demoniache nel sonno…
…una foresta di occhi vigili, brillanti…
…un mondo arido… spine… spine…
…scricchiolii e raschi di strane bestie che si muovono nei muri… tarlatura dell’anima… tutta la poesia ridotta in cenere, tutto l’amore in ruggine…
…occhi gelidi levati all’universo… e l’universo che spia a sua volta…
Chalk, estasiato, dava calci nell’acqua, provocando fontane. Picchiava la superficie a mano piatta. Code di balena! Là, code di balena! Ohilà, ohilà!
Il piacere lo sommerse e lo consumò.
E questo, disse poi fra sé placidamente, questo è solo il principio.
24
Così in cielo come in terra
Partirono per Luna Tivoli in una giornata di sole, entrando così nella seconda fase della loro peregrinazione attraverso i nidi di delizie di Chalk. Per quanto la giornata fosse luminosa, era ancora inverno; essi fuggivano dall’inverno vero, boreale, e dall’invernale estate australe, nell’inverno immutabile del vuoto. Alla base spaziale godettero del trattamento riservato alle celebrità: cineprese nell’aerostazione, poi la vetturetta dal muso piatto che li portò velocemente attraverso il campo sotto gli occhi meravigliati della gente qualunque che, anche senza sapere chi fossero, applaudì vagamente i notabili.
Tutto ciò era odioso a Burris. Ogni casuale occhiata, ora, sembrava incidere di nuovo col bisturi la sua anima.
— E allora perché ti ci sei messo? — chiese Lona. — Se sei così restio a farti vedere, perché mai hai lasciato che Chalk ti imbarcasse in un simile viaggio?
— Come penitenza. Come deliberata espiazione per essermi ritirato dal mondo. Per amore della disciplina.
Questa sfilza di astrazioni non la convinse. Forse non capì nemmeno.
— Ma non avevi una ragione?
— Te le ho dette, le mie ragioni.
— Solo parole.
— Non sottovalutare le parole, Lona.
— Stai di nuovo prendendomi in giro! — disse, con un breve palpito delle nari.
— Scusami. — Lo disse sinceramente. Era troppo facile burlarsi di lei.
— Io lo so — disse lei — che cosa significa avere tutti gli sguardi puntati addosso. Mi intimidiscono. Ma l’ho dovuto fare, affinché Chalk mi dia qualcuno dei miei bambini.
— Anche a me ha promesso qualcosa.
— Ecco! Sapevo che l’avresti ammesso.
— Un trapianto di corpo — confessò Burris. — Mi metterà in un corpo sano, normale. Devo solo lasciarmi vivisezionare dalle sue macchine da presa, per qualche mese.
— Davvero la cosa è possibile?
— Lona, se quelli possono fare cento bambini da una ragazza che non ha mai conosciuto l’uomo, possono fare qualsiasi cosa.
— Ma… scambiare i corpi…
Stancamente egli disse: — Non hanno ancora messo perfettamente a punto la tecnica. Forse ci vorrà qualche anno. Dovrò aspettare.
— Oh, Minner! Sarebbe meraviglioso! Metterti in un vero corpo!
— Questo è il mio vero corpo.
— Un altro corpo. Che non sia così diverso. Che non ti faccia talmente male. Se solo potessero!…
— Già, se solo potessero.
Lona era eccitata; più di lui, che viveva in compagnia di quell’idea da alcune settimane: un tempo sufficiente a fargli dubitare che sarebbe mai stato possibile attuarla. E adesso l’aveva fatta ballonzolare davanti agli occhi di Lona, come un nuovo balocco. Ma, a lei, che cosa gliene im portava? Non erano sposati. Avrebbe ottenuto da Chalk i suoi bambini, come ricompensa per quella farsa, e sarebbe scomparsa di nuovo nell’oscurità, a suo modo appagata, contenta di essersi sbarazzata di quel compagno irritante, esasperante, sarcastico. Anche lui se ne sarebbe andato per la propria strada, forse condannato per sempre a star dentro quella spoglia grottesca, forse trasferito in un corpo inappuntabile e snello, di modello standard.
La vetturetta schizzò su per una rampa d’accesso, e furono dentro la nave. Il tettuccio del veicolo scattò indietro, Bart Aoudad guardò dentro.
— Come stanno, i piccioncini?
La loro uscita fu silenziosa, senza sorriso. Aoudad, preoccupato, svolazzava intorno a loro. — Tutti contenti, riposati? Niente mal di spazio, eh, Minner? A lei, non ho da fare raccomandazioni! Ah! ah! ah!
— Ah! — fece Burris.
C’era anche Nikolaides, con documenti, opuscoli, tagliandi. Dante si era accontentato di Virgilio, come guida nei gironi dell’inferno; ma (pensò Burris) io, di guide, ne ho ben due; viviamo in tempi di inflazione… Porse il braccio a Lona e si mossero verso gli interni recessi della nave. Ne sentiva le dita rigide contro la sua carne. Egli pensò che era impaurita per il fatto di affrontare lo spazio, oppure che la tensione ininterrotta di quel “grand tour” fosse un peso eccessivo per lei.
Si trattava di un viaggio breve: otto ore per coprire 384.000 chilometri. Un tempo, quella stessa linea compiva il tragitto in due tappe, sostando prima al satellite artificiale degli svaghi orbitante a 80.000 chilometri dalla Terra. Ma dieci anni fa il satellite era esploso, per uno dei rari errori di calcolo di un’epoca di sicurezza. Migliaia di vite umane perdute, pioggia di rottami sulla Terra durante un mese. Le nude travature metalliche del globo fracassato avevano orbitato come le ossa di un gigante per quasi tre anni, prima che l’operazione di salvataggio fosse portata a compimento.
A bordo del Disco, al momento della fine, c’era una donna amata da Burris. Era lì, tuttavia, con un altro, ad assaporare il piacere delle tavole da gioco, degli spettacoli sensori, della “haute cuisine”, in quell’atmosfera libera da ogni pensiero del domani. Il domani era sopraggiunto inaspettato.
Quando lei lo aveva respinto, Burris aveva creduto che non gli sarebbe mai accaduto nulla di peggio per il resto dei suoi giorni. Questa era una fantasia da giovane romantico, poiché, poco dopo, lei era morta, ed era stato peggio di quando aveva preferito un altro. Morta, era irrecuperabile, e, per qualche tempo, anch’egli fu come un morto che cammina. Dopo di che, strano a dirsi, la sofferenza si ritirò pian piano, fino a sparire. Veder preferire un altro, poi perdere l’amata in una catastrofe era forse la cosa peggiore? Macché! Dieci anni dopo, Burris aveva perduto se stesso. E adesso credeva di sapere veramente che cosa fosse “il peggio”.
— Signore e signori, benvenuti a bordo dell’Aristarchus IV. Da parte del comandante Villeparisis, desidero augurarvi un buon viaggio. Dobbiamo chiedervi di rimanere nelle vostre rispettive culle fino a quando non sarà superata là fase di massima accelerazione. Una volta sottratti all’influsso della Terra, sarete liberi di sgranchirvi un po’ le gambe e godervi la veduta dello spazio.