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La nave trasportava quattrocento passeggeri, merci e corriere postale. Lungo i suoi fianchi c’erano venti cabine private; una era riservata per Burris e Lona. Gli altri sedevano a fianco a fianco, in una vasta conglomerazione, contorcendosi per vedere qualcosa attraverso il portello più vicino.

— Ecco che si parte — disse Burris piano.

Sentì che i jet flagellavano e respingevano il terreno, sentì l’intervento dei razzi, sentì che la nave si sollevava senza sforzo. Una triplice fila di gravitroni proteggeva i passeggeri dagli effetti più violenti del lancio; ma, su una nave così grande, era impossibile abolire completamente la gravità come poteva invece fare Chalk sul suo piccolo spazioscafo da diporto.

La Terra, che rimpiccioliva a vista d’occhio, pendeva come una prugna verde proprio fuori del finestrino. Burris si accorse che, invece di guardarla, Lona lo stava osservando con amorevole sollecitudine.

— Come ti senti? — gli chiese.

— Bene. Bene.

— Non sembri rilassato.

— È la trazione della gravità. Credi forse che mi impaurisca il fatto di andare nello spazio?

Una spallucciata. — È il tuo primo lancio dopo… dopo Manipol, non è vero?

— Ho fatto anch’io quella passeggiata nella nave di Chalk, non ricordi?

— Era un’altra cosa.

— Credi che mi sentirò agghiacciare solo per un viaggio spaziale? — egli chiese. — Pensi forse che io prenda questo traghetto per un direttissimo che mi riporta a Manipol?

— Stai travisando le mie parole.

— Davvero? Ti ho detto che stavo bene. E tu, ti sei messa a costruire sul mio conto una gran fantasia complicata su un presunto malessere. Tu…

— Basta, Minner.

Lo guardava con occhi tetri. Le sue parole avevano un accento calcato, pungente, tagliente. Con uno sforzo, egli tornò ad appoggiare le spalle nella culla a sospensione e cercò di costringere i tentacoli della sua mano a sciogliersi. Era riuscita a innervosirlo, mentre prima era calmo e disteso. Perché si ostinava a circondarlo di cure? Non era un infermo. Non aveva bisogno di essere tranquillizzato per un lancio. Lui faceva dei lanci spaziali già da anni quando lei non era ancora nata. Che cosa, dunque, lo spaventava, adesso? Come mai le parole di Lona avevano minato con tale facilità la sua sicurezza?

Smisero di bisticciare come si taglia un nastro registrato; ma le cime sfrangiate rimanevano. Egli le disse, con la maggior gentilezza che poté: — Non mancare la veduta, Lona. Non hai mai visto la Terra da quassù, vero?

Il pianeta, adesso, era lontano. Se ne vedeva l’intero contorno. Avevano di fronte, in piena luce, l’emisfero occidentale. Non vedevano l’Antartide, dove si trovavano poche ore prima, tranne il lungo dito sporgente della Penisola, simile a un pollice puntato verso Capo Horn.

Sforzandosi di non sembrare didattico, Burris le indicò come, in quella stagione, il sole colpisse il pianeta di traverso, riscaldando la parte meridionale e illuminando appena quella settentrionale. Parlò dell’eclittica e del suo piano, dei moti di rotazione e rivoluzione del pianeta, della sequenza delle stagioni. Lona ascoltava con aria seria, annuendo spesso, compiacente. Egli aveva il sospetto che continuasse a non capire; ma, a questo punto, era disposto, se non poteva avere la sostanza della comprensione, a contentarsi di una semplice parvenza. E lei gliela forniva.

Uscirono dalla cabina e fecero il giro della nave. Videro la Terra da vari angoli. Ordinarono qualcosa da bere al bar. Fu servito un pasto. Aoudad, dal suo posto in classe turistica, mandò loro un sorriso. Furono notevolmente mitragliati dagli sguardi della gente.

Tornati in cabina, sonnecchiarono.

Dormivano nel momento mistico del capovolgimento, quando infine passarono dall’influsso terrestre a quello lunare. Burris si svegliò di scatto, aguzzando gli occhi nelle tenebre, oltre il corpo della ragazza addormentata. Gli parve di vedere, lì fuori, le ossature frantumate del Disco, alla deriva nello spazio. No, no, impossibile! Ma in un viaggio, dieci anni prima, le aveva effettivamente vedute. Correva voce che alcuni dei corpi, caduti dal Disco quando si era spaccato, fossero ancora in orbita, seguendo una vasta parabola intorno al Sole. Per quanto ne sapeva Burris, nessuno, in tanti anni, aveva mai veduto uno solo di quei girovaghi. La maggior parte dei cadaveri, forse tutti, erano stati onoratamente raccolti da vedette spaziali e portati via; quanto agli altri, egli voleva credere che avessero trovato modo di giungere fino al Sole, per il più bel funerale possibile. Era un suo vecchio terrore privato, quello di veder apparire il viso contorto di lei, passando in quella zona.

La nave si inclinò e girò dolcemente su se stessa, e l’amata faccia butterata della Luna apparve.

Burris toccò il braccio di Lona. Lei si mosse, sbatté le palpebre, guardò lui e poi fuori del finestrino. Osservandola, egli si accorse dello stupore che le si stendeva sul viso, nonostante avesse le spalle girate.

Ora si scorgeva una decina di cupole sulla superficie lunare.

— Tivoli! — esclamò lei.

Burris dubitava che una di quelle cupole fosse davvero il parco dei divertimenti. La Luna era infestata di cupole, costruite nel corso dei decenni per motivi svariati, bellici, commerciali o scientifici. Nessuna di quelle corrispondeva all’idea che si faceva del Tivoli. Però si astenne dal contraddirla. Stava imparando.

Il trasporto passeggeri, decelerando, spiralò giù verso il punto di allunaggio.

Le cupole erano una caratteristica di quell’epoca, e molte erano opera di Duncan Chalk. Sulla Terra si preferivano (ma non sempre) le cupole geodesiche a contrafforti. Qui invece, data la gravità minore, si usava in genere il tipo di cupola più semplice, e meno rigido, costruito in un sol pezzo, per soffiatura. L’impero dei piaceri di Chalk era segnato di cupole, da quella della sua vasca da bagno privata alla cupola della Sala Galattica, per proseguire con quelle dell’albergo-rifugio nell’Antartide, del Tivoli, e così via, sempre più lontano nello spazio. L’allunaggio fu morbido.

— Cerchiamo di divertirci, qui, Minner! Ho sempre desiderato di venirci!

— Ci divertiremo — le promise.

Le scintillavano gli occhi. Era una bambina, solo una bambina. Innocente, piena di entusiasmo, semplice… Egli faceva lo spunto delle sue doti. In più, era calda, affettuosa. Lo coccolava, fin troppo. Egli sapeva di non apprezzarla come sarebbe stato giusto. La sua vita era stata così avara di piaceri, che lei non si era stancata delle piccole gioie. Poteva entusiasmarsi apertamente e di tutto cuore di fronte ai parchi di divertimento di Chalk. Era giovane. Ma non era una sciocchina, si diceva Burris, cercando di convincersi; era una ragazza che aveva sofferto, piena di cicatrici quanto lui.

Fu calata la rampa e lei corse giù, fin dentro la cupola di attesa. Egli la seguì, stentando solo un poco a coordinare i movimenti delle gambe.

25

Gocce di Luna

Lona guardava, rapita, il cannoncino che rinculava e la cartuccia dei fuochi d’artificio che, scivolando da un’apertura della cupola, filava nelle tenebre. Tratteneva il fiato. La cartuccia esplose.

I colori variegarono la notte.

Lì fuori non c’era aria, nulla che facesse da cuscinetto alle particelle di polvere che ricadevano. Ma non ricadevano nemmeno, rimanendo più o meno dov’erano. Il disegno era brillante. Ora usavano gli animali. Strane figure extraterrestri. Accanto a lei, Burris guardava in alto, come tutti.

— Ne hai visto, qualche volta, uno come questo?

Era un animale con dei viticci fibrosi, un collo interminabile, dei piedi piatti e palmati. Un pianeta paludoso doveva averlo partorito.

— Mai.