Una seconda cartuccia filò in alto. Ma era solo quella che cancellava la creatura dal piede palmato, lasciando pulita la nera lavagna celeste per l’immagine successiva.
Un altro sparo.
Un altro.
Un altro.
— È così diverso, qui, dai fuochi d’artificio sulla Terra — disse lei. — Niente scoppio, niente accensione. E tutto rimane lì fermo. Se non lo cancellassero, quanto tempo rimarrebbe, Minner?
— Qualche minuto. Anche qui c’è la forza di gravità. Le particelle ricadrebbero. E i detriti cosmici le scompiglierebbero. Ci sono porcherie di ogni genere che spiovono dallo spazio.
A qualsiasi domanda, aveva una risposta pronta. All’inizio, questa dote l’aveva riempita di reverente ammirazione. Adesso l’irritava. Lei sperava di metterlo in imbarazzo. Ci si provava continuamente, pur sapendo che le sue domande lo seccavano, quasi quanto le risposte di Burris annoiavano lei.
Che bella coppia! Cerchiamo già di tenderci delle trappolette a vicenda. E non siamo nemmeno in luna di miele!
Rimasero per mezz’ora a guardare i fuochi d’artificio silenziosi. Poi lei cominciò a essere irrequieta e si mossero.
— Adesso dove andiamo? — disse lui.
— Giriamo a caso.
Sentiva che Burris era teso e nervoso, pronto a prendersela con lei al primo passo falso. Come doveva essergli odioso di trovarsi in quello stupido parco dei divertimenti! Molti lo guardavano con tanto d’occhi. Guardavano anche lei; ma il suo motivo di curiosità stava in quel che le avevano fatto, non nell’aspetto che aveva, e gli occhi non si fermavano a lungo.
Proseguirono, giù per un passaggio tra i baracconi, e tornando indietro lungo un altro.
Era un luna-park del tipo tradizionale, fedele a un modello centenario. Era cambiata la tecnologia ma non l’essenza. C’erano i giochi di destrezza e le bambolette, gli spacci da pochi soldi che servivano immondezza in piatti, giostre rotanti che avrebbero soddisfatto dei dervisci, baracconi di facili orrori, casini da gioco, oscure sale di proiezione (solo adulti!) nelle quali vengono rivelati i misteri più scadenti della carne, il circo delle pulci e il cane parlante, i bengala, la musica chiassosa, i montanti luminosi: due o tremila ettari di divertimenti stantii, rimpannucciati all’ultima moda. La differenza più notevole fra il Tivoli di Chalk e le migliaia di luna-park del passato stava nella sua collocazione, dentro il vasto cratere di Copernico, verso l’arco est della parete circolare. Qui si respirava aria pura, ma si ballonzolava nella gravità ridotta. Era la Luna.
— Il Vortice? — chiese una voce insinuante. — Signore, signorina, volete il Vortice? — Lona avanzò sorridendo, Burris gettò delle monete sul banchetto, e furono fatti entrare. Una decina di gusci d’alluminio stavano, spalancati, come i resti di cozze gigantesche, a galla su un lago di mercurio. Un individuo tarchiato, a petto nudo e con la pelle color rame, disse: — Un guscio per due? Da questa parte, da questa parte!
Burris la aiutò a entrare in un guscio e sedette accanto a lei. Il coperchio venne serrato. L’interno era buio, caldo, opprimente. C’era spazio appena sufficiente per loro due.
— Auguri per le fantasticherie prenatali — egli disse.
Lei gli prese la mano e la tenne ostinatamente stretta. Attraverso il mercurio del lago venne una scintilla di forza motrice e partirono, sfiorando la superficie dell’ignoto. Quali gallerie nere, quali gole nascoste stavano seguendo? Il guscio dondolava in un vortice. Lona strillava, strillava, strillava.
— Hai paura? — le chiese Burris.
— Non so. Va così veloce!
— Non è possibile che ci facciamo male.
Era come stare a galla, o in volo. Praticamente, senza peso, senza attrito che impedisse il moto sfiorante, mentre scivolavano qua e là, giù per le vie traverse e le cloache. Si aprirono delle valvole invisibili, e un odore filtrò all’interno.
— Che odore senti? — gli chiese Lona.
— Odore di deserto, di caldo. E tu?
— Di boschi in un giorno di pioggia. Foglie fradice, Minner. Come mai?
Forse (pensava) i sensi di Burris non reagiscono come i miei, come quelli degli esseri umani… Come può sentire il deserto, in questo odore intenso di umidità?… A lei pareva di vedere i funghi rossi che sbucavano dal terreno, animaletti multipedi che sgattaiolavano e che affondavano nel terriccio, un bruco luminoso. E lui… Il deserto?
Il guscio parve sbandare, battere in piatto sul mezzo che lo sosteneva, e poi raddrizzarsi. L’odore, quando Lona lo notò di nuovo, era cambiato.
— Adesso sembra di essere al Portico, la sera — disse. — Noccioline, sudore, risate. Che odore avranno mai le risate, Minner? A te che cosa sembra?
— La sala combustibili di una nave nell’orario di cambiamento del materiale di fissione. Qualcosa bruciava, qualche ora fa. Del grasso che ha sfrigolato dove le barre perdevano. Colpisce le nari come un chiodo.
— Come mai il nostro odorato non sente le stesse cose?
— Psicovariazione olfattiva. Percepiamo gli odori di cose evocate dalla nostra mente. Qui non ci fanno sentire un odore in particolare, ma solo la materia grezza di uno stimolo. Siamo noi a darle forma.
— Non capisco, Minner.
Egli tacque. Vennero altri odori: di ospedale, di chiar di luna, di acciaio, di neve. Lei non gli chiese più quel che provava. Una volta egli emise un sospiro strozzato; un’altra sussultò e le affondò la punta delle dita nella coscia.
Il tiro di sbarramento degli odori cessò.
Il guscio liscio scivolava, i minuti passavano, e vennero ora i suoni: pigolii, sussulti di organo, colpi di maglio, ritmico raspare. Nessun senso veniva trascurato. L’interno del guscio si raffreddò, si riscaldò, tutto ciò accompagnato da un complesso ciclo di variazioni dell’umidità. Il guscio sbandava, scartava, deviava. Vorticò vertiginosamente in vite e di colpo furono in porto, al sicuro. Burris, nel tirar fuori Lona, le chiuse una mano nella propria.
— Divertente? — le chiese senza sorridere.
— Non ne sono sicura. Insolito, comunque.
Le comperò dello zucchero filato. Passarono davanti a uno stallo dove si colpivano dei bersagli dorati su uno schermo mobile, con dei piccoli globi di vetro. Chi colpisce il bersaglio con tre tiri su quattro, vince un premio. C’erano degli uomini che, con i loro muscoli terrestri, cercavano di adeguarsi alla minor gravità e facevano cilecca provocando il broncio delle loro ragazze, lì accanto. Lona additò i premi: cose di tipo curioso, di altrove; forme increspate e astratte, di stoffa pelosa. — Vinci uno di quelli per me — lo pregò.
Egli si fermò a guardare gli uomini e i loro tiri parabolici e sfortunati. Per lo più oltrepassavano di molto il bersaglio; alcuni, rettificando il tiro, lo facevano troppo debole e vedevano le loro biglie ricadere lentamente più in qua del bersaglio. Gli spettatori assiepati tutt’intorao, gli fecero largo, scostandosi inquieti, quando penetrò tra loro. Lona se ne accorse e rimpianse che fosse andato lì in mezzo. Burris mise delle monete sul banco e prese le sue biglie. Il suo primo tiro mancò il bersaglio per quindici centimetri.
— Bravissimo, amico! Fategli largo! Questo è uno che ha mira… — E il ciarlatano, da dietro il banco, fissò incredulo il viso di Burris. Lona arrossì. Perché devono mettersi a fissarlo? Ha un aspetto così strano?
Lui fece un altro tiro: clang. Poi: clang. E clang.
— Tre centri di seguito! Dài il premio alla piccola signora!
Lona afferrò qualcosa di caldo, di peloso, quasi vivo. Si allontanarono dalla baracca, sottraendosi a un ronzio di commenti. Burris disse: — In questo corpo odioso, Lona, ci sono cose degne di rispetto.
Poco tempo dopo, lei posò un attimo il suo premio, e quando si girò a prenderlo era sparito. Egli le propose di vincerne un altro per lei: ma Lona gli disse di non stare a preoccuparsi.