E sempre, sia durante, sia subito dopo la lite, sopraggiungeva quella sensazione di spossatezza, quella catastrofica perdita di energia. Burris non aveva mai provato niente di simile. Ed era doppiamente strano che quelle crisi assalissero nello stesso momento anche la ragazza. Non ne fecero parola ad Aoudad e Nikolaides, che scorgevano ogni tanto fra la gente.
Burris sapeva che le loro violente discussioni calcavano un cuneo, sempre più a fondo, tra loro. Nei momenti meno burrascosi, se ne rammaricava, poiché Lona era tenera e buona, ed egli ne apprezzava il calore. Però gli istanti di rabbia gli facevano dimenticare tutto ciò. Lei gli appariva, allora, come vuota, inutile, esasperante: un peso aggiunto a tutti i suoi fardelli, una bambina sciocca e ignorante, odiosa. Tutto questo, egli lo disse a Lona, prima in metafora, poi con nude parole.
Una rottura era inevitabile. Si stavano esaurendo, dando fondo alla loro sostanza vitale, in quelle battaglie. I momenti di amore erano sempre più radi, l’acredine sempre più frequente.
La “mattina” (arbitraria, stabilita secondo l’orario terrestre) del sesto “giorno” (altrettanto arbitrario), Lona disse: — Disdiciamo la camera e proseguiamo subito per Titano.
— Dovremmo fermarci qui altri cinque giorni.
— Davvero lo vorresti?
— Be’… francamente, no.
Nel dir questo, Burris temette di provocare un’altra eruzione di parole rabbiose, ed era ancora troppo di buon’ora per cominciare quella solfa. Invece, niente: per Lona era il mattino dei gesti di sacrificio. Disse: — Credo di esserne stufa, e che tu ne sia stufo non è un segreto per nessuno. Quindi, perché restare. Probabilmente Titano è più allettante.
— Probabilmente.
— E qui siamo stati così cattivi, l’uno con l’altra. Forse un cambiamento di paesaggio gioverà.
Questo sì era probabile. Il primo venuto, con quattro soldi in tasca, poteva concedersi la spesa di un biglietto per Luna Tivoli, e il luogo era pieno di screanzati, di ubriachi e di attaccabrighe. Quel paradiso del “tempo libero” faceva quattrini a spese di una massa di pubblico che non si limitava certo alla classe “manageriale” terrestre. Il pubblico di Titano era assai più selezionato. La sua clientela era composta solo di persone ricche e raffinate, persone per le quali lo spendere in un viaggetto il doppio della paga annuale di un operaio era un nonnulla. Quella gente, almeno, avrebbe avuto la cortesia di trattare Burris come se le sue deformità non esistessero. Gli sposini in viaggio di nozze nell’Antartide, che chiudevano gli occhi su tutto ciò che li disturbava, lo avevano trattato come se fosse semplicemente invisibile. I frequentatori del Tivoli gli avevano riso in faccia e avevano sbeffeggiato la sua diversità. Su Titano, però, le buone maniere innate imponevano una tranquilla indifferenza per il suo aspetto: guardare quell’uomo strano, sorridere, chiacchierare garbatamente, ma non lasciar trapelare mai, mai, né con la parola né col gesto, che lo trovate strano, questa è la buona educazione. Burris riteneva che, fra queste tre specie di crudeltà, preferiva nettamente la terza.
Perciò, bloccato Aoudad nella luce dei fuochi d’artificio, disse: — Ne abbiamo abbastanza di star qui. Ci faccia avere i posti per Titano.
— Ma avete a disposizione…
— …ancora cinque giorni. Be’, ci rinunciamo. Ci tiri fuori di qui e ci spedisca a Titano.
— Vedrò che cosa posso fare — promise Aoudad.
Aoudad aveva veduto i loro litigi. Burris ne era dispiaciuto, per dei motivi che disprezzava. Aoudad e Nikolaides avevano recitato, per loro due, la parte di Cupido, e Burris, in un certo senso, si riteneva in obbligo di agire costantemente da innamorato cotto. Gli pareva, oscuramente, di mancare in qualcosa nei confronti di Aoudad, quando si mostrava ringhioso con Lona. Eppure… Non dovrebbe importarmene una cicca, di venir meno ad Aoudad. Lui non si lagna delle nostre baruffe, non solleva la minima obiezione. Non cerca di far da paciere. Non apre bocca…
Come Burris prevedeva, Aoudad procurò senza alcuna difficoltà i biglietti per Titano. Dove telefonò per informare quella stazione turistica che sarebbero arrivati in anticipo sul previsto. E partirono.
Un lancio dalla Luna era tutt’altra cosa di una partenza dalla Terra. La forza di gravità era di appena un sesto, e bastava un colpetto per spedire la nave nello spazio. Quella base spaziale aveva un traffico intenso, con partenze giornaliere per Marte, Venere, Titano, Ganimede e Terra, partenze trisettimanali per i pianeti esterni, e settimanali per Mercurio. Dalla Luna non partivano navi per viaggi interstellari: per legge e per abitudine, le astronavi partivano solo dalla Terra, seguite momento per momento fino a quando, da qualche parte oltre l’orbita di Plutone, non facevano il balzo nell’universo distorto. La maggior parte dei mezzi di trasporto diretti a Titano si fermavano prima a Ganimede, importante centro minerario; secondo l’itinerario prestabilito, essi avrebbero dovuto prendere uno di questi. Ma la nave-traghetto di quel giorno faceva il viaggio senza scalo. Lona non avrebbe visto Ganimede; ma l’aveva voluto lei. Era stata lei a suggerire di anticipare l’arrivo. Forse potevano fermarsi a Ganimede nel viaggio di ritorno.
Lona chiacchierava con allegria forzata, mentre scivolavano attraverso l’abisso di tenebre. Chiedeva notizie a non finire su Titano, come le aveva chieste sul Polo Sud, sull’alternarsi delle stagioni, sulle abitudini dei cactus… Ma quelle domande obbedivano a una curiosità ingenua; queste venivano fatte, invece, con la speranza di ristabilire il contatto, un qualsiasi contatto, fra lei e lui.
Burris sapeva che non sarebbe servito a niente.
— È la luna più grande che ci sia in tutto il nostro sistema solare. È persino più grande di Mercurio, che pure è un pianeta.
— Ma Mercurio gira intorno al Sole, Titano gira intorno a Saturno.
— Esatto. Titano è molto più grande della nostra Luna. Resta circa un milione e duecentomila chilometri da Saturno. Godrai di una buona veduta degli anelli. C’è un’atmosfera: metano, ammoniaca; nulla che faccia molto bene ai polmoni. È ghiacciato. Lo dicono pittoresco: io, non ci sono mai stato.
— Come mai?
— Da giovane non me lo potevo permettere, poi sono stato troppo occupato in altre parti dell’universo.
La nave continuava a scivolare avanti attraverso lo spazio. Lona ammirò, a occhi spalancati, lo scavalcamento della fascia degli asteroidi, e una buona veduta di Giove non troppo lontano da loro nella sua orbita. La nave filava via e avvistò Saturno.
Scesero su Titano.
Ancora una cupola, naturalmente. Uno squallido campo su uno squallido altopiano. Quello era un mondo di ghiaccio, ma assai diverso dalla mortale Antartide. Ma in quest’ultimo, tutto diventava ben presto una cosa familiare, quasi banale. Su Titano non c’era un centimetro quadrato che non risultasse estraneo, e diverso. Non era solo un luogo dominato dal freddo, dal vento e dal bianco.
Tra l’altro, c’era da considerare la presenza di Saturno. Il pianeta degli anelli incombeva basso nel cielo, considerevolmente più grande della Terra vista dalla Luna. Quel tanto di atmosfera metano-ammoniacale bastava a conferire una sfumatura azzurrastra al cielo di Titano, creando un bel fondale per Saturno, dorato e splendente, con la sua spessa e scura striscia atmosferica e la sua cintura, simile al mitico serpente che si morde la coda, di minuscole particelle pietrose.