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Ecco lo zoo. Animali in gabbia che andavano avanti e indietro, guardavano timorosi, imploravano. Erano forse gli ultimi animali selvatici? Eliminati altrove? Qui c’era il formichiere gigante. Qual era il muso, quale la coda? Qui il koala affondava gli artigli nel legno di un albero secco. Nel loro recinto i procioni impauriti si muovevano in un agitato andirivieni. Il puzzo degli animali selvatici veniva aspirato dalle pompe sotto il pavimento lastricato.

«…in genere le uova raggrinzite sopravvissero e furono considerate come essenzialmente normali…»

Intimorita dagli animali, Lona si allontanò, uscì dal serraglio, facendo un’altra volta il giro della galleria al primo piano del Portico. Le parve di vedere Tom Piper che la inseguiva. Sfiorò il ventre rigido della ragazza incinta.

«…nelle riceventi sottoposte ad autopsia si esaminò il numero degli embrioni degenerati e dei siti di riassorbimento…»

Si accorse che non aveva voglia di star lì. A casa, al sicuro, al caldo, sola. Non sapeva se fosse più spaventosa la gente in grandi mandrie o una singola persona.

Voglio andarmene, concluse Lona.

L’uscita. Dov’era l’uscita? Le uscite non erano indicate, qui. Gli organizzatori volevano che la gente si trattenesse. E se fosse scoppiato un incendio? Dei robot, sgusciando dai pannelli dove erano nascosti, avrebbero spento il fuoco.

Ma voglio andarmene.

«…si dispone così di un utile metodo…»

«…la sopravvivenza delle uova pronucleari dopo i vari trattamenti è esposta a Tabella 1…»

«…i feti ottenuti da uova microiniettate erano più piccoli, più spesso che i loro compagni di figliata, pur se non si è osservata nessun’altra anormalità esterna…»

Grazie, dr. Teh Ping Lin di San Francisco. Può bastare.

Lona fuggiva.

Correva freneticamente, girando attorno al ventre del Portico formicolante di luci. Tom Piper la ritrovò, le gridò qualcosa, tese le mani. Era cordiale, senza cattive intenzioni, solo. Forse era davvero un astronauta.

Lona fuggiva.

Scoprì un imbuto di uscita. Si precipitò fuori, in strada. I rumori del Portico si spensero. Lì, al buio, si sentì più calma, e il sudore del panico, asciugandosi sulla pelle, si agghiacciò. Lona rabbrividì. Voltando spesso il capo per guardarsi alle spalle, si affrettò verso l’edificio in cui abitava. Portava, agganciate alle cosce, delle armi contro le molestie, che avrebbero scoraggiato chiunque volesse usarle violenza: una sirena, una cortina fumogena, un laser che emanava lampi di luce abbaglianti. Tuttavia, non si poteva mai essere sicure. Quel Tom Piper. Poteva essere appostato dappertutto. Capace di qualsiasi cosa.

Raggiunse la sua casa. I miei bambini, pensava. Voglio i miei bambini.

La porta si chiuse. La luce si accese. Sessanta o settanta dolci immagini alle pareti. Lona le toccò. C’era bisogno di cambiar loro i pannolini. I pannolini erano una verità eterna. Avevano rigurgitato latte sulle gote rosee? Doveva spazzolare i loro ricciolini? Crani teneri, non ancora saldati. Ossa flessibili. Nasini a patatina. I miei bambini. Le mani di Lona carezzavano le pareti. Si spogliò. Venne anche il momento in cui cadde nel sonno.

5

Entra Chalk, poi Aoudad

Da tre giorni Duncan Chalk esaminava le registrazioni, dedicando la propria attenzione quasi esclusivamente a quell’iniziativa. Ora gli pareva di conoscere Minner Burris e Lona Kelvin meglio di chiunque. Gli pareva anche che l’idea di appaiarli fosse buona.

L’aveva saputo, intuitivamente, fin dall’inizio. Ma, per quanta fiducia avesse nei giudizi del proprio intuito, raramente passava all’azione solo su tale base, senza aspettare di avere effettuato una ricognizione più metodica. Ora l’aveva fatta. Aoudad e Nikolaides, ai quali aveva delegato le fasi preliminari dell’impresa, avevano presentato la loro selezione di registrazioni al monitor. Chalk non si era basato esclusivamente sul loro giudizio.

Aveva fatto visionare le registrazioni anche da altri, incaricati di preparare a loro volta un’antologia degli episodi più rivelatori. Era soddisfatto perché le scelte coincidevano. Ciò giustificava la fiducia accordata ad Aoudad e a Nikolaides. Dei buoni dipendenti.

Dondolando un poco avanti e indietro nella poltrona pneumatica, Chalk, in mezzo alla vita affaccendata e ronzante dell’organizzazione da lui creata, indugiò a considerare la situazione.

Un’iniziativa. Un’impresa. La riunione di due esseri umani che soffrivano. Ma erano umani? Lo erano stati. Una volta. Un impulso genetico. Un neonato che piange. E sin qui va bene. Un bambino, una bambina, lastre da conio vergini, per l’impronta della vita. Su questi due l’impronta si era abbattuta duramente.

Minner Burris. Astronauta. Intelligente, vigoroso, istruito. Catturato su un altro mondo e trasformato suo malgrado in un essere mostruoso. Per quel che gli era successo, Burris era angustiato. Naturale! Un uomo da meno sarebbe andato a pezzi. Burris si era solo piegato. Chalk sapeva che agli occhi del pubblico ciò sarebbe apparso interessante e ammirevole. Inoltre, Burris soffriva. E questo era interessante agli occhi di Chalk.

Lona Kelvin. Ragazza. Rimasta orfana in tenera età; affidata alle cure dello Stato. Non bella; ma era ancora in età acerba e forse sarebbe maturata. Insicura, orientata male nei confronti degli uomini, e non molto intelligente. (Oppure, si chiese Chalk, era più intelligente di quanto non osasse mostrare?) Aveva con Burris una cosa in comune. Anche lei era stata preda degli scienziati. Che non erano, però, degli esseri sinistri di un altro mondo, bensì delle astrazioni d’alto livello, spassionate, benevole, gentili, in camici da laboratorio. Senza danneggiare Lona in alcun modo, avevano solo prelevato alcuni oggetti superflui immagazzinati nel suo corpo, per servirsene a scopo sperimentale. Ecco tutto. E adesso i cento bambini di Lona germogliavano nei lucenti grembi di plastica. Avevano germogliato? Sì. Erano già nati. Lasciando un certo vuoto dentro Lona. Che soffriva.

Duncan Chalk giunse alla conclusione che, favorendo l’unione di quei due esseri sofferenti, si sarebbe compiuto un atto caritatevole.

— Fammi venire Bart — disse alla sua poltrona.

Bart entrò subito, come se camminasse su rotelle, come se fosse stato ad aspettare ansiosamente, in anticamera, proprio questa chiamata. Era gradevole che fosse ansioso. Un tempo Aoudad possedeva autonomia e agilità emotiva; ma Chalk sapeva che, alla lunga, aveva ceduto allo sforzo. Ne era un indizio la frenesia di andare a femmine. Tuttavia, a guardarlo, si vedeva una simulazione di forza. Occhi freddi, labbra decise. Sotto la superficie, Chalk percepiva le emanazioni della paura e del nervosismo. Aoudad aspettava.

Chalk disse: — Bart, puoi portare subito Burris da me?

— Sono settimane che non esce dalla sua camera.

— Lo so. Ma che io vada da lui è futile. Bisogna indurlo a riapparire in pubblico. Ho deciso di mandare avanti l’iniziativa.

Aoudad irradiò una specie di terrore. — Andrò a trovarlo, signore. Già da un po’ ho predisposto delle tecniche per prendere contatto. Offrirò degli incentivi. Verrà.

— Non parlargli ancora della ragazza.

— No, certamente no.

— Manovrerai bene questa faccenda, Bart. Posso fidarmi di te. Lo sai. La posta in gioco è grossa; ma, come al solito, farai un buon lavoro.

Chalk sorrise. Aoudad sorrise. Il sorriso dell’uno era un’arma. Quello dell’altro, una difesa. Chalk percepì le emanazioni. Nel suo profondo, delle ghiandole endocrine ne furono eccitate, ed egli reagì all’inquietudine di Aoudad con un sussulto di godimento. Dietro gli occhi freddi e grigi di Aoudad roteavano le incertezze. Eppure Chalk aveva detto la verità: aveva fiducia nell’abilità di Aoudad, per quella faccenda. Era invece Aoudad a non averne, e perciò le assicurazioni di Chalk giravano un pochino il coltello nella piaga. Da gran tempo Chalk aveva imparato tali tattiche.